Il figlio (Le fils)

il figlio

Il figlioSilenziosi, essenziali e meticolosi come sempre, i due fratelli belgi rinnovano il miracolo del loro cinema lontanissimo dai moduli di rappresentazione istituzionale e vicino all’emozione vera che la vita può, e deve, riservare.
Ancora all’inseguimento di un personaggio, come accadeva in Rosetta, con la macchina rigorosamente in spalla e pronta a cogliere qualsiasi cambio di direzione di attori che non sembrano attori, di storie che tutto ricordano fuorché la fiction. Scelte coraggiose e vincenti, nei festival più importanti (palma d’oro come miglior film nel 2000, palma d’oro per il miglior attore nel 2002), ma anche nel riuscire a coinvolgere a livello viscerale lo spettatore, senza brutti scherzi o trucchi ingannevoli.

Non ci resta che guardare, per essere parte di questo miracolo così comune e quotidiano, le azioni vere mostrate in tempo reale, ci si perdoni la ripetizione inevitabile, di un falegname routinario e inespressivo. La sua decisione di insegnare un lavoro, e regalare un futuro, al giovane assassino del suo unico figlio, appena uscito dal carcere minorile; la sua ricerca, ancora metodica e apparentemente fredda, di mimetizzarsi nella vita di chi potrebbe essere vittima di una vendetta feroce o destinatario di una seconda, insperata, possibilità. In un silenzio irreale e sacro in cui le parole sono poche e tutte necessarie, senza la presunzione di poter raccontare o svelare tutto quello che può essere racchiuso in un semplice sguardo, o in un gesto comune, o in una smorfia appena accennata, si partecipa al percorso interiore di un uomo vero e credibile, di quelli che capita così poco spesso di incontrare sul grande schermo.

il figlioQuello dei Dardenne è uno straordinario lavoro di sottrazione, di cesellatura quasi artigianale, di piallatura (tanto per rifarsi ad un linguaggio da falegnameria) di tutto ciò che potrebbe distrarre, o, peggio, irritare la sensibilità dello spettatore. Rispetto al film precedente è persino più discreta la “presenza” della macchina a mano, qui meno balbettante, meno disturbante. E poi pochissimi tagli, nel rispetto della continuità e della centralità dell’azione; anche ai gesti più, apparentemente, insignificanti viene regalato il compimento. Nessun tipo di musica, non per scelta dogmatica, ma perché aggiungere un ulteriore elemento drammatico e narrativo a queste sequenze non potrebbe che risultare pleonastico, ridondante. Infine, un finale che non finisce, proprio come la vita: nessun “vissero felici e contenti”, nessun climax crescente o decrescente, nessun raggiungimento di qualsivoglia, positivo o negativo, punto di equilibrio.
È questo, forse, il dono più bello per il film stesso e per i, pochi, fortunati spettatori che decidano di non perderselo: cosa si può immaginare, infatti, di più perfetto di un film che continua la sua proiezione nella fantasia dello spettatore e, da lì, si trasforma in vita vissuta e in azione reale?


di Ludovico Bonora
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