No – I giorni dell’arcobaleno
Il film, diretto dal regista cileno Pablo Larraín, è l'adattamento cinematografico dell'opera teatrale El Plebiscito di Antonio Skármeta.

Nel 1988, sotto una forte pressione internazionale (soprattutto da parte di quegli stessi Stati Uniti che avevano contribuito a sostenere il golpe del 1973 grazie al quale era al potere da ben 15 anni) , il dittatore cileno Augusto Pinochet accettò di indire un referendum popolare nel quale si chiedeva che il popolo si esprimesse a favore o contro un prolungamento di ulteriori otto anni del suo “governo illuminato”. Convinti che la consultazione popolare si sarebbe risolta in un autentico plebiscito perché la gente cilena – terrorizzata da tre lustri di repressione e brutalità di ogni tipo – avrebbe avuto troppa paura di esporsi negando il proprio pur coatto sostegno alla giunta militare, gli spin doctor del generalissimo concessero ai partiti dell’opposizione 15 minuti da sfruttare in televisione per sostenere la validità della propria proposta. Contro ogni più rosea previsione, il fronte del NO ebbe la meglio e il risultato di quel referendum fu l’inizio della fine dell’incubotico viaggio nel terrore subito dal Cile a partire dal 1973 di fronte agli occhi impotenti del mondo.
No – I giorni dell’arcobaleno racconta la storia di come la rivoluzionaria campagna pubblicitaria riuscì nell’impresa giudicata impossibile a priori di portare la gente a vincere la paura, uscire dalle case e andare a esprimere con una croce su una scheda elettorale il proprio rifiuto al prolungamento di una sofferenza che aveva risparmiato ben poche famiglie del paese in quegli anni di torbidi e di abusi ancora oggi non del tutto chiariti nella loro enormità.
A orchestrare quella campagna usata ancora oggi nei corsi di marketing come un caso di studio per dimostrare l’efficacia di un messaggio e del linguaggio col quale venne veicolato fu Eugenio García, giovane pubblicitario esperto in strategie di mercato cui fu affidato l’incarico di studiare uno spot efficace con cui cercare di affrontare la corrazzata mediatica messa in campo dal regime. Di origini messicane, García aveva sentito sulla propria pelle gli effetti della dittatura: il padre, socialista di provata fede e lungo corso, come altri suoi connazionali di analogo orientamento politico aveva perso il lavoro poco dopo che Pinochet era salito al potere, mentre la sorella era stata spedita al confino e molti suoi amici erano finiti nelle famigerate carceri cilene dell’epoca da cui la gente usciva o menomata a seguito dei “trattamenti” ricevuti o distesa per lungo su un tavolaccio.
La sua trovata fu a dir poco geniale nella semplicità quasi disarmante (oggi nessun pubblicitario riuscirebbe a venderla come vincente per una qualsivoglia campagna che si rispetti): mentre tutti i membri dei partiti dell’opposizione puntavano ad accettare la sfida del regime che aveva scelto un confronto diretto in stile “o con me e sarai premiato o contro di me e ne pagherai le conseguenze”, García si limitò a proporre l’immagine radiosa di un arcobaleno al di sotto del quale campeggiava un NO scritto a caratteri cubitali. Il tutto accompagnato da uno slogan – “Arriva l’allegria” – così semplice da sembrare quasi infantile e da un jingle facilmente orecchiabile e cantabile che entrasse senza fatica nella mente degli elettori e li accompagnasse in modo garbato ma costantemente vigile durante tutti i ventisette giorni di durata della campagna referendaria.
L’invenzione di García prendeva una serie plurima di piccioni con una fava semplice ma perfetta come un uovo di Colombo: da una parte evitava la logica di contrapposizione diretta imposta dal regime alla consultazione referendaria proponendo in cambio la via del coinvolgimento civile senza attaccare in alcun modo né la giunta militare al potere né tanto meno gli elettori-servi che avrebbero scelto il SÌ per svariati motivi di interesse o perché intimiditi all’idea di essere scoperti anche nel segreto dell’urna. E dall’altro, con quell’avverbio di negazione sparato sullo sfondo di un arcobaleno e quello slogan che guardava necessariamente a un futuro all’insegna del colore e dell’allegria, rifiutava in maniera straordinariamente concisa quindici anni di grigiore esistenziale in cui il dolore del recente passato (il rovesciamento della giovane democrazia di Salvador Allende) e le atrocità del presente negavano di fatto le prospettive di un domani possibile.
Inizialmente osteggiato da tutte quelle componenti dell’opposizione eccessivamente politicizzate per poter capire la modernità vincente di un messaggio tanto intimamente rivoluzionario quanto disarmante nella sua semplicità ma ancora troppo profondamente ferite nell’intimo dalla ferocia del regime per poter accettare una campagna incentrata su un messaggio di simile “leggerezza”, García riuscì a imporre su tutti la propria idea, contribuendo in maniera decisiva a trascinare il Cile fuori dalle secche della dittatura che uscì ammaccata dalla sconfitta referendaria e vide proprio in quel trionfo del NO l’inizio della propria fine.
Quando i cileni andarono a votare quel 5 ottobre del 1988 Pablo Larraín, regista di questa magnifica riflessione sul potere delle immagini e delle parole ma anche sul passato di un paese tanto complesso quanto è stato il Cile di quegli anni convulsi, aveva soltanto dodici anni e forse non si era nemmeno reso conto di quel che stava accadendo intorno sé. Anche perché era cresciuto in una famiglia della borghesia “bene” di Santiago i cui membri erano stati politicamente attivi dalla parte di chi il regime di Pinochet lo aveva fiancheggiato perché ne era stato socialmente ed economicamente beneficiato.
Passato dall’altra parte della barricata soltanto una volta iniziata la scuola di cinema, Larraín iniziò a guardare alla storia del proprio paese in maniera totalmente diversa, scoprendo una realtà che l’ambiente ovattato e in parte fasullo in cui era cresciuto gli aveva impedito di intercettare.
Da quella riflessione è nata la cosiddetta Trilogia della dittatura, di cui questo No è il terzo e conclusivo capitolo dopo le due dolorose stazioni da via crucis per immagini che erano state Toni Manero e Post mortem, ambientate rispettivamente nei giorni più cupi della dittatura e in quelli violentissimi del colpo di stato che portò Pinochet al potere. Premiato lo scorso anno a Cannes nella sezione della “Quinzaine des Réalisateurs” e quindi nominato nella cinquina per l’Oscar come miglior film straniero dopo aver mietuto una messe di premi in svariati festival in giro per il pianeta, No ripercorre i ventisette giorni della campagna referendaria pedinando il protagonista (che nel film non ha volutamente il nome del personaggio vero che lo ha ispirato ma che si chiama René Saavedra) dal momento in cui gli viene assegnato l’incarico di mettere d’accordo le varie anime dei partitucoli che costituivano all’epoca la flebile opposizione al regime militare fino a quando il geniale spot all’insegna dell’allegria regala l’inatteso trionfo del NO (a votare contro la prosecuzione del governo di Pinochet furono tre milione mentre in quattro si espressero in senso contrario).
Deciso a trascinare lo spettatore in una sorta di full immersion nel clima dell’epoca, Larraín ha scelto di girare un film volutamente spoglio usando apposta una cinepresa d’epoca che schiaccia l’immagine in un quasi surreale formato 4:3 molto vintage e persuasivo. Un escamotage stilistico questo che da una parte impone al film una patina sommessa adattissima a riprodurre l’atmosfera plumbea che si respirava in Cile a fine anni ’90, ma che dall’altra gli ha anche permesso di inserire nel tessuto di finzione del film molti filmati di repertorio con Pinochet e i membri della sua giunta ritratti in svariati momenti della vita ufficiale (parate, incontri di vertice ma sopratutto tanti incontri con bambini commossi al cospetto del Generalísimo) e quindi percepibili alla stregua di un pendant visuale del Male come componente essenziale costituiva della vita di ogni giorno.
Liberamente ispirato al romanzo El plebiscito di Antonio Skármeta (tradotto in italiano come I giorni dell’arcobaleno cui – con la solita geniale creatività che caratterizza questo settore del cinema di casa nostra – ci si è ispirati per indebolire la forza del titolo originale in quello più fiacco e verboso della versione che esce oggi nelle nostre sale), No è un film solo visivamente spoglio ma densissimo a livello concettuale.
Se infatti la riflessione sulla dittatura di Pinochet e sulla forza che la parola e l’immagine può avere è di certo ineludibile nella lettura critica della pellicola, non deve passare inosservata un’altra prospettiva non meno determinante e forse ancora più inquietante di tutti gli altri incroci tematici che si assiepano in questa dolente immersione in apnea negli orrori del passato di un paese martoriato da se stesso: quando nel finale il protagonista e il suo capo ormai ex pinochetista si ritrovano a lavorare a una pubblicità di sconfortante vacuità, gli occhi di uno straordinario Gael García Bernal (che, dopo essere stato Che Guevara in ben due film, ha qui l’onore di vestire i panni di un altro eroe sudamericano vessillifero dei migliori valori su cui ogni moderna democrazia dovrebbe poter contare) fissano sconcertati l’immagine che ha di fronte a sé. Si tratta di un fotogramma simbolico che racchiude nella sua grande potenza evocativa il vero succo politico dell’intera operazione diretta da Larraín: abbattuta la dittatura di chi aveva trasformato un intero popolo in un immenso gregge di pecore terrorizzate dalla brutalità del bastone, inizia adesso il viaggio nei meandri di un’altra dittatura, molto meno violenta e repressiva ma ben più subdola e difficile da combattere perché abilissima nel convertire le sue vittime in creature lobotomizzate incapaci di vedere la verità aldilà della spazzatura dell’immagine. Benvenuti cioè nel paradiso del consumismo.
Trama
Il 5 ottobre del 1988 il polo cileno venne chiamato alle urne per esprimersi a favore o contro il mantenimento al potere del generale Augusto Pinochet e della sua giunta militare per altri otto anni. Il film è il racconto dei ventisette giorni di campagna referendaria durante la quale un pubblicitario ebbe l’idea geniale di inventare uno spot a favore del NO che puntasse tutte le sue carte su un ritorno all’allegria dopo quindici anni di grigiore plumbeo e di brutale repressione.
di Redazione