Loving Vincent

Diciamo la verità: va bene Van Gogh, va bene vederlo sul grande schermo (non per la prima volta: Resnais, Minnelli, Kurosawa, Altman, Pialat), ma sentire che si trattava di un film interamente dipinto questa era la vera curiosità. Ma allora Loving Vincent è un normale film di animazione! Non proprio, perché si tratta di un’operazione che incrocia animazione e figure reali. Quindi un piccolo plotone di attori – nove – ad animare i personaggi immortalati da Van Gogh, il pittore stesso e il protagonista, il figlio del postino Roulin. Tutti vitalizzati dalla mobilità espressiva dell’essere umano, ma anche dipinti dalle inconfondibili pennellate del pittore olandese, e ambientati in quegli interni e in quegli esterni che fanno ormai parte imprescindibile dell’arte moderna. Insomma come se i celebri dipinti si animassero, e quindi di animazione si tratta, realizzata da un gruppo di decine e decine di disegnatori.

Così l’avventura di Armand Roulin inviato dal padre a recapitare l’ultima lettera di Vincent ormai scomparso al fratello Theo si dispiega in un luccichio visivo davvero singolare, che sorprende e sconcerta al tempo stesso. Anche perché la saturazione cromatica della vicenda narrata si interrompe talvolta coi flash back della vita di Van Gogh, mostrata però in bianco e nero pastellato senza l’effetto dipinto. Il bianco e nero di oggi naturalmente, ovvero il grigio chiaro e il grigio scuro, non quindi quello generato dalle pellicole di un tempo, le Kodak, le Ilford, le Agfa, la nostra Ferrania, la cui sensibilità – chimica ed estetica – resta oggi riservata a chi pratica la fotografia “argentique”, come direbbero i francesi, che come al solito si distinguono nelle definizioni (ciò che nel mondo si chiama digitale loro lo chiamano “numerique”).

Se poi si aggiunge che il film, dalla mancata consegna di una lettera, si trasforma in una sorta di indagine sulla dinamica della morte mai accertata del pittore, ecco che ci troviamo in una sorta di Quarto potere, con personaggi diversi che dicono cose diverse sullo stesso personaggio. In comune il film di oggi e il classico del passato hanno anche una grande forza iniziale nella definizione del personaggio e una buona stanchezza narrativa nell’indagine vera e propria, come se in entrambi i casi tutta la preoccupazione stesse soprattutto nel creare un impatto visivo: cosa che ha fatto passare Welles alla storia mentre gli autori di Loving Vincent dalla storia hanno attinto la ragion d’essere. Dopo un po’ infatti il gioco si rivela meccanico (il film non a caso era nato inizialmente come un cortometraggio), pur nell’esasperato virtuosismo. Solo nel finale, anzi nel titoli di coda, quando viene sfogliato un album con le immagini dei dipinti reali, quelle degli interpreti – reali e ridipinti –, e brevi didascalie che ricordano fatti ben noti della sfortunata esistenza di Van Gogh (800 pezzi realizzati, uno solo venduto in vita, ecc.) l’emozione riesce a travolgere lo spettatore. Perché? Semplice: in quella breve sequenza c’è più cinema che nell’esibizionismo estetico dell’ora che l’ha preceduta, dove la debolezza drammaturgica dell’andirivieni temporale fa rimpiangere quello che aveva contrassegnato una recente ricostruzione di un fatto ripetutamente mostrato, il Sully di Clint Eastwood.

Il pubblico – molto più numeroso per questo film rispetto agli altri ormai frequenti sui pittori, almeno nella sala genovese frequentata da chi scrive – ha tuttavia mostrato di gradire, evidentemente dimenticando la famosa citazione del pittore che apre Loving Vincent: «Lasciamo che i nostri dipinti parlino per noi». Come dire che non vale la pena rovistare tanto nelle biografie degli artisti, lo diceva anche Proust. E infatti lo scrittore francese è un altro che ha stimolato interminabili indugi sulla sua esistenza…

TRAMA

Nel 1891, un anno dopo la morte di Van Gogh, il postino Roulin chiede al figlio di recapitare a Parigi un’ultima lettera ritrovata a Theo, fratello del pittore. Poiché nel frattempo è morto anche lui, il giovane, abbandonando la sua abituale dissolutezza, comincia ad appassionarsi alla vita di quell’artista tanto singolare. Finisce così per ricostruirne la vita, andando nei luoghi in cui aveva vissuto e incontrando le persone che lo avevano conosciuto, e soprattutto compiendo una sorta di indagine per chiarirne le circostanze della morte.


di Massimo Marchelli
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