Ibi

Dopo l’anteprima a Locarno, alcuni passaggi festivalieri (“Internazionale” a Ferrara, “Visioni dal mondo” a Milano) e un paio di proiezioni-evento (alla Camera dei Deputati, alla reggia di Caserta) il nuovo documentario di Andrea Segre arriva anche in sala in alcune città italiane grazie a ZaLab (I Wonder curerà la distribuzione internazionale), mentre resiste ancora sugli schermi il terzo lungometraggio del regista padovano L’ordine delle cose (ne avevamo parlato qua dopo l’anteprima alla Mostra di Venezia ).

Sui titoli di coda di Ibi si parla giustamente di un film per e con Ibitocho Sehounbiatou, per chi l’ha conosciuta semplicemente Ibi. Il film è in effetti un omaggio postumo alla memoria della protagonista, ma soprattutto al valore esemplare dei suoi sforzi per l’emancipazione personale e il riscatto sociale in un territorio – quello di Castel Volturno e del litorale domiziano – tra i più complessi ed emblematici per le sfide che il nostro paese ha da tempo di fronte a sè. Segre – insieme al fidato collaboratore Matteo Calore, filmmaker, sceneggiatore e direttore della fotografia – incontrano Ibi nel 2014, pensano di fare un film con lei, ma la morte improvvisa, nel maggio 2015, di questa donna forte ed energica, che riempie in senso letterale lo schermo, impone un senso totalmente diverso al progetto.

Nata in Benin, cresciuta in Costa d’Avorio, Ibi nel 2000 lascia il suo paese e i suoi tre figli e accetta di fare il corriere della droga tra Nigeria e Italia. Arrestata, sconta tre anni di carcere a Pozzuoli, per buona condotta ottiene gli arresti domiciliari e viene ospitata nella casa che i padri comboniani hanno dedicato a Miram Makeba a Castel Volturno (nel comune più “africano” d’Europa, la grande artista sudafricana era morta nel novembre 2008, sul palco di un concerto contro la camorra che appena due mesi prima aveva massacrato come gesto dimostrativo sei africani innocenti). Ibi trova un nuovo compagno, il nigeriano Salami, e lentamente inizia il suo percorso di reinserimento sociale grazie alla fotografia: realizza servizi fotografici e video per gli italiani e gli stranieri della zona, immortalati in pose da sogno o iper-realiste e nei loro momenti più felici, matrimoni e altri riti e funzioni, in un vorticoso sincretismo culturale e religioso; ma sostiene anche le battaglie dell’attivissimo “Movimento Migranti e Rifugiati” di Caserta (che svolge un’azione insostituibile di raccordo e comunicazione tra istituzioni italiane e comunità immigrate).

In più, per oltre dieci anni, Ibi filma di continuo se stessa e la sua vita per raccontarla ai figli e alla madre rimasti in Africa che sogna sempre di poter rivedere, ben consapevole peraltro, come ammette, che “senza documenti non hai il diritto di sognare”. Nella realtà, infatti, le commissioni italiane preposte le negheranno sempre lo status di richiedente asilo mentre – ignaro persino della sua morte – il tribunale respingerà ancora una volta, nel 2016, la sua domanda di permesso di soggiorno. La motivazione rimane sempre il grave reato di cui si era resa responsabile: per la nostra giustizia, una colpa irredimibile.

Tra cinema come documento, lungometraggi di finzione (che di finzione hanno poi ben poco), progettazione e conduzione di laboratori di video partecipato, per ZaLab e altre realtà, Segre prosegue dunque, anche attraverso una presenza militante sul piano politico e culturale, il suo discorso rigoroso, tanto a livello etico che estetico, sulla narrazione e rappresentazione dell’umanità “migrante” e, più in generale, dell’ “Altro”. Il regista coglie qua il tragico detour dal progetto originario per “uscire di scena” (o dalla messa in scena) e spingere in maniera radicale sul pedale dell’ “auto-narrazione”di Ibi (come donna, moglie, madre, figlia, e come artista visuale, personaggio in fondo anche pubblico) che diviene così il fulcro e il senso stesso della narrazione filmica. Intorno a questo racconto diretto e in prima persona convergono differenti situazioni, punti di vista, testimonianze (a cominciare da quella, fondamentale, del marito Salami), nonché le disparate fonti, private e pubbliche, e i diversi materiali di archivio (secondo Matteo Calore, era il problema principale per la fotografia del film, che infatti si presenta, ma in modo del tutto congruo, disomogenea, mantenendo anche immagini spesso grezze, precarie, sfocate).

Del resto, è proprio la possibilità che il cinema contemporaneo offre, da un parte ai cosidetti migranti di raccontare se stessi in maniera libera, senza costruzioni e costrizioni narrative o ideologiche, e dall’altra allo spettatore di identificarsi in quel racconto, a porsi sempre più come discrimine, ancora una volta sul doppio versante etico ed estetico (un’operazione altrettanto radicale è quella compiuta, di recente, in Les Sauters dai registi Moritz Siebert ed Estephan Wagner, che scelgono di affidare, insieme alla camera e alla co-regia, l’occhio e la voce del film al giovane maliano Abou Bakar Sidibé, uno dei giovani migranti condannati a scalare le altissime, mortali recinzioni di Melilla, uno dei tanti confini tra Africa ed Europa).

Sia Andrea Segre, a posteriori, che la protagonista Ibi, nella scelta programmata e poi testimoniata dagli enormi archivi di immagini girate e fotografie scattate risultano pienamente consapevoli di questo processo, che guidano in piena trasparenza. Ibi nel film a volte si piazza davanti la camera, dopo averla posta sul treppiedi, o la affida al marito, e si lascia filmare, ma per lo più guarda il mondo con i suoi occhi e ce lo restituisce, a volte, come nelle fotografie, sue o dei clienti, ritoccate con Photoshop, più allegro e colorato (e anche un po’ troppo kitsch o sgargiante) di quanto sia davvero. Soprattutto, il film, nel montaggio interno delle immagini girate da Ibi, rende conto del percorso della donna, dalle mura domestiche e dai rimpianti privati, all’intervento pubblico, in mezzo alla gente, nelle manifestazioni, dove tutti la conoscono, la salutano, la rispettano e (persino i poliziotti) vogliono farsi fotografare con lei…
Nel suo sguardo in soggettiva, in campo come nel fuori campo, Ibi resta dunque una presenza costante e assorbente del film. Anche dopo la sua scomparsa, come nella bellissima sequenza del sottofinale del film che vede per protagonista il suo compagno Salami.

Trama

Ibi è nata in Benin nel 1960, ha avuto tre figli e nel 2000 in seguito a seri problemi economici ha scelto di prendere un grande rischio per cercare di dare loro un futuro migliore. Li ha lasciati con sua madre e ha accettato di trasportare della droga dalla Nigeria all’Italia. Ma non ce l’ha fatta. 3 anni di carcere, a Napoli. Una volta uscita Ibi rimane in Italia senza poter vedere i figli e la madre. Così per far capire loro la sua nuova vita decide di iniziare a filmarsi. Racconta se stessa, la sua casa a Castel Volturno dove vive con un nuovo compagno, Salami, e l’Italia dove cerca di riavere dignità e speranza. Dalle immagini che Ibi ha realizzato è nato questo film.

 


di Sergio Di Giorgi
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