Quarant’anni di musiche per film, ovvero Pino Donaggio

Più di quarant’anni di carriera e una filmografia di oltre duecento titoli non hanno mai modificato i tratti salienti della personalità dello trumentista classico, cantautore di fama mondiale e compositore per il cinema.

Più di quarant’anni di carriera e una filmografia di oltre duecento titoli non hanno mai modificato in Pino Donaggio i tratti salienti della sua personalità: in primis l’umiltà e la riservatezza con cui ha affrontato la sua “terza vita” (dopo quella di strumentista classico e di cantautore di fama mondiale) di compositore per il cinema, fedele ad un metodo creativo solitario e artigianale, sempre strettamente correlato alle immagini e da queste discendente; poi l’amore indeflettibile per la sua Venezia, mai abbandonata nemmeno quando gli si sono spalancate le porte di Hollywood; infine uno stile compositivo che, pur spaziando tra generi diversissimi (dal prediletto thriller-horror alla commedia, dal biopic in costume al film d’impegno civile e politico), è sempre rimasto riconoscibile e fedele ad una scrittura d’impronta classica, dove tuttavia a felicissime invenzioni squisitamente melodiche e leitmotiviche si alternano lampi di modernità e soluzioni, armoniche e timbriche, decisamente anticonvenzionali: si ascolti solo la “Prayer for Paris” composta in memoria delle vittime del Bataclan parigino, e in particolare della veneziana Valeria Solesin, contenuta nel recente album Warner “Lettere” inciso con quei Solisti Veneti nei quali Donaggio iniziò la propria carriera.

Accanto a collaborazioni durature e illustri, la più celebre delle quali resta quella con Brian De Palma (attualmente il musicista è al lavoro sul prossimo titolo del regista, Domino), Donaggio ha sempre coltivato una particolare attenzione e dedizione al cinema di registi semiesordienti o indipendenti, lontani dai grandi circuiti produttivi, sia italiani che stranieri: simile anche in questo al percorso compiuto da Bernard Herrmann, un nome che gli viene spesso associato soprattutto per la particolare attenzione e inventiva posta nel trattamento orchestrale della sezione degli archi (in comune i due ebbero anche lo studio iniziale del violino). Ed è su questo fronte, oltre che su quello televisivo dov’è molto attivo, che Donaggio riserva a volte autentiche preziose sorprese.

Va senz’altro situata tra queste la partitura per Dove non ho mai abitato, quarto lungometraggio di Paolo Franchi attualmente sugli schermi tra molti applausi, a confermare – seppur con qualche limite – il talento del 48enne regista bergamasco nel raccontare storie di forte intensità emotiva con una stringente concisione stilistica, grande raffinatezza visiva ed esemplare asciuttezza sintattica. Un cinema, il suo, più “europeo” che italiano, ed alle cui caratteristiche il lavoro del maestro veneziano contribuisce qui in maniera determinante.

In una programmatica e rigorosa economia strutturale, gli interventi musicali abitano il film con una parsimonia e una sommessa, quasi mormorata arcata di timbri molto rara nel cinema contemporaneo, italiano e non. L’organico è prevalentemente concepito per archi e pianoforte, due aree strumentali molto care all’autore; gli episodi sono brevissimi e “chiusi”, più simili a frammenti esposti con un pudore sottrattivo che rasenta la ritrosia, inseriti nelle pause tra i dialoghi e in alcuni momenti di raccordo emotivo apparentemente ininfluenti ma dove in realtà i protagonisti sono faccia a faccia con le rispettive solitudini. A volte è l’apparizione appena accennata di due note di violini, altre una transitoria frase del piano, altre ancora come nei titoli di testa un semplice e nitido sviluppo tematico… sembra quasi una musica che insegua il silenzio, desiderosa di competere con esso in una dialettica e con una grammatica espressiva la cui cifra preponderante è la rarefazione.

Un simile modo di procedere ha naturalmente l’effetto di rendere psicologicamente molto efficaci le emersioni della musica e i suoi risvolti drammatici, ma sempre senza enfasi né retorica, in un paesaggio dinamico che raramente supera il “piano” e assai più spesso accarezza il “pianissimo”.

C’è un unico momento di sfogo, straziante e irresistibile, che colpisce duro proprio per la sua isolata unicità: ed è l’abbraccio finale fra i due protagonisti, sulla soglia di un ascensore che li separerà per sempre. Qui Donaggio scioglie la briglia agli archi in una frase accaldata e travolgente, che sembra voler restituire al sentimento del dolore il suo legittimo ruolo in una vicenda che proprio della compressione del dolore e delle emozioni, in nome delle convenzioni borghesi, fa uno dei suoi perni centrali. Dopodichè i titoli di coda, di una mesta e quasi rassegnata discorsività, chiudono una partitura che non avrebbe sfigurato in un film del primo Bergman e o del primo Antonioni, per la capacità di penetrare in profondità nelle pieghe e nell’anima di personaggi silenziosamente condannati all’infelicità.


di Roberto Pugliese
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