Longlegs

La recensione di Longlegs, di Oz Perkins, a cura di Gianlorenzo Franzì.

Cos’è il Male? Da dove nasce?

Oz Perkins (all’anagrafe Osgood, figlio di Anthony) lo studia e lo circuisce da un bel po’: da quando ha iniziato a girare film lo mette al centro del tessuto narrativo, creando ambienti malsani e soffocanti ma senza nessuna rincorsa, anzi cercandolo nella lentezza, nel turbamento dell’attimo, nel dubbio esistenziale.

Longlegs non fa eccezione: inizia accecato dalla luce bianca della neve, ma si stringe in un 4:3 claustrofobico che si fa ancora più piccolo perché si allontana dal presente per pescare nella memoria.

Cos’è allora il Male? Non è l’oscurità, non è il buio, non è quello che non conosciamo, ma è sotto i nostri occhi e grazie a questo divora tutto e tutti, lentamente, partendo dall’ “uomo del piano di sotto” nelle parole di Longlegs stesso (Nicholas Cage, che appare frontalmente solo dopo quaranta minuti abbondanti), carnagione chiara e vestiti bianchi e capelli pure bianchi. Il Male è attorno a noi, è dentro di noi.

Longlegs sembra solo saperlo tirare fuori: ed è per questo che l’indagine dell’agente FBI Lee Harker (Maika Monroe) parte come una detection investigativa e sfuma, lentamente, inesorabilmente, nel paranormale. Le vittime sono carnefici, il Male è entrato dentro di loro senza bussare ma senza fare rumore, perché loro -noi- lo hanno ignorato perché pensavano non li riguardasse.

Perkins lavora sulla suspense nel senso etimologico, cioè sospensione: il suo quarto film scorre lento ma si interrompe continuamente, sospende le inquadrature, i dialoghi, le azioni, resta sempre un passo prima, mentre sullo sfondo appare e scompare lievemente l’immagine del Demonio, come se nulla fosse.

Longlegs è un horror vacuo e denso: film quasi epistolare, feroce nel suo sembrare disteso per poi assalire lo spettatore all’improvviso. C’è pochissimo sangue e molto mistero, poche spiegazioni (almeno fino al finale) e tante supposizioni, poche parole e molte immagini. Anche le lettere che lascia il serial killer non si possono pronunciare perché scritte in un alfabeto inesistente, solo leggere.

Longlegs è un film che vive sull’indefinito, sulla mancanza di margini -narrativi, spaziali, temporali- incerti, sull’assenza di confini e quindi di protezione: da dove viene il Male? Non si sa mai da dove può attaccare perché può essere chiunque e venire da qualunque luogo, le coordinate temporali sono sfasate, incongrue a volte, consapevolmente sfasate. Scivola come acqua, insomma, c’è e non si vede: e forse è per questo che è insinuante fino a rivelarsi allucinato, proprio come il suo protagonista (Cage) che appare tardi anche se è sempre presente, allucinato con gli accostamenti delle sequenze irrituali, smembrati, lentissimi e per questo alterati apparentemente malamente. Il Male allora nasce dal non detto, dal silenzio. E quando è arrivato, non c’è più nulla da fare.


di Gianlorenzo Franzì
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