L’altra verità
Dopo l’incursione nella commedia sociale, con risvolti psicoanalitici, de Il mio amico Eric, in cui (complice perfetto Eric Cantona) battevano terreni assai cari e collaudati -il mondo del lavoro, il calcio come metafora-, Ken Loach e il suo fidato sceneggiatore Paul Laverty confermano il loro ottimo stato di forma e la capacità – rara nel cinema contemporaneo- di mescolare mirabilmente il privato e il politico. Esplicitamente politico è infatti il background narrativo di Route Irish: il nome della strada “più pericolosa del mondo”, quella che unisce l’aeroporto di Baghdad alla città (che in Italia giunge inspiegabilmente a quasi un anno di distanza dalla presentazione a Cannes e con il titolo un po’ anodino di L’altra verità). Si parla infatti del “business della guerra” (nella fattispecie quella irachena), e in particolare del ruolo dei contractors, milizie private e mercenari prezzolati (con ingaggi da 10.000 sterline al mese) impiegati dalla coalizione anglo-americana (con grandi e ben note coperture a livello politico-finanziario, negli Usa di Bush jr. come nell’Inghilterra di Blair) a sostegno dei loro eserciti, deputati ai lavori più sporchi, o con compiti di sicurezza per le grandi corporations. In Iraq poi, dal 2003 al 2009, agirono nella più totale impunità, svincolati dalle leggi locali in base al famoso “Ordine 17” (poi abrogato da Obama), rendendosi autori di torture e massacri, anche ai danni della popolazione civile, ampiamente documentati.
Come accade anche ai grandi registi, Loach si trova più a proprio agio quando racconta fatti e atmosfere che conosce più di prima mano: non a caso, a nostro avviso, ha padroneggiato con maggiore autorevolezza e rigore stilistico la lotta per l’indipendenza degli irlandesi contro gli inglesi di inizio ‘900 ne Il vento che accarezza l’erba rispetto alla guerra civile spagnola di Terra e Libertà e alla guerra dei contras nel Nicaragua sandinista de La canzone di Carla. Ma se là si parlava di conflitti lontani o dimenticati, L’altra verità affronta una guerra su cui il cinema di questi anni ha molto indagato, sia pure con diversi accenti e prospettive (basta ricordare Nella valle di Elah di Haggis, Redacted di De Palma, The Hurt-Locker della Bigelow,Green zone di Greengrass). Un campo d’azione che rischiava di impaludare Loach nel già visto e nel cinema politico “a tesi” (che poi è da sempre l’accusa dei suoi detrattori, i quali peraltro non devono aver visto gli ultimi, assai sfaccettati, film del regista inglese). Ma “Ken il rosso” e l’avvocato Laverty dribblano alla grande le insidie: con una sceneggiatura basata ancora una volta su una ampia documentazione tratta da casi reali e con una messa in scena, quasi interamente ambientata in una Liverpool livida e ostile (ben fotografata da Chris Menges), che lascia in primo piano -narrativo ed emozionale- le vicende dei protagonisti (il “microcosmo capace di rendere il quadro generale” secondo le parole del regista), affidate a interpreti -nei ruoli principali- di grande presenza, nonostante esperienze in campo teatrale o televisivo (ma sappiamo che in Inghilterra si tratta spesso di grande teatro e ottima televisione…). In particolare, l’amicizia sin dai tempi dell’infanzia (narrata in flashback o attraverso gli inserti video del fronte iracheno) tra Fergus (Mark Womack) e Frankie (John Bishop), tragicamente interrotta per la morte misteriosa di Frankie in un attentato (lungo la Route Irish di Baghdad, appunto); ma anche la relazione tra Fergus e la vedova Rachel (una intensa Andrea Lowe), un perverso triangolo (entrambi gli uomini avevano tatuato sul braccio il nome della donna), tanto ambivalente (era stato Fergus, già esperto del terreno, avendo fatto parte delle truppe speciali britanniche, a convincere l’amico a partire per l’Iraq, “per tirar su un po’ di soldi”) quanto incapace di trasformarsi in un nuovo amore. Troppo forte, per Fergus, il peso della colpa.
Rientrato a Liverpool dall’Iraq, dove vive in un lussoso ma totalmente spoglio loft, Fergus, appresa la notizia della morte di Frankie, non si accontenta delle spiegazioni ufficiali; conosce bene, del resto, i burattinai della guerra (come il personaggio in doppiopetto di Haynes, che, in un dialogo tagliente cerca nuovamente di ingaggiarlo e già vagheggia “nuovi pascoli, come il Darfour”). Cercando un impossibile riscatto, Fergus condurrà una sua indagine privata, scoprirà (inguaiando, tra gli altri, un musicista esule iracheno e la sua famiglia) la vera versione dei fatti, torturerà a morte Nelson (un “Rambo” che era di stanza in Iraq all’epoca dei fatti), sino al tragico e distruttivo epilogo, in un crescendo thriller che scandisce la sua discesa progressiva verso la follia.
Secondo Laverty, l’idea della storia nasce dai racconti di una infermiera prossima alla pensione che aveva curato molti casi di contractors affetti da sindrome DPTS-Disturbo post-traumatico da stress, uomini “in lutto per la persona che erano un tempo, quella che non c’è più”. A questi uomini come Fergus – che nel film dice “siamo criminali che si vendono come puttane per i soldi” – Loach rifiuta la patente patriottica di “eroi dimenticati” (come nella scena dell’orazione funebre davanti alla bara di Frankie), ma, da par suo, restituisce – quasi, come è stato rilevato, “cristianamente” – un po’ della loro fragile e contraddittoria umanità.
di Sergio Di Giorgi