La folle vita

La recensione di La folle vita, di Ann Sirot e Raphaël Balboni, a cura di Ignazio Senatore.

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Ormai dobbiamo rassegnarci. La vita media dell’uomo si è decisamente allungata e sono sempre più numerosi i film che trattano il delicato tema del deterioramento cognitivo e dell’inevitabile comparsa dell’Alzheimer nei soggetti anziani. Ne è una conferma La folle vita, film diretto da Ann Sirot e Raphaël Balboni, del 2020, qui al loro esordio. Un tema declinato già in passato da diversi registi che l’hanno affrontato con ironia e leggerezza (Avviso di chiamata di Diane Keaton, Guai in famiglia di Ted Kotcheff, Florida di Philippe Le Guay ) o in maniera poetica e struggente (Compagna di viaggio di Peter Del Monte, Il figlio della sposa di Juan José Campanella, Iris – Un amore vero di Richard Eyre, Lontano da lei di Sarah Polley).

I due registi belgi ci mostrano, in apertura, Alex (Jean Le Peltier) e Noémie (Lucie Debay) che si rivolgono ad un ginecologo perché non riescono ad avere un figlio. Suzanne Meertens (Jo Deseure), la madre di Alex, gallerista estrosa ed esuberante, é però su di giri e mostra, giorno dopo giorno, sempre più dei comportamenti insoliti e bizzarri. Alex e la moglie, inizialmente, non ci danno peso ma poi ingaggiano un badante che si prende cura di lei. Suzanne è sempre più svampita, capricciosa e agitata. Noémie spinge per avere un bambino, ma Alex tentenna prende tempo e, di fatto, spende le giornate a cercare di tamponare i comportamenti sempre più esasperanti, imprevedibili e imbarazzanti della madre che, non solo è rimasta al verde ma, inopinatamente, dopo aver dichiarato erroneamente di essere pensionata, deve una montagna di soldi al Fisco.

Il film è delicato, non scade mai nel liquoroso sentimentalismo e gioca tutto sul contrasto tra chi, come Noémie, vorrebbe programmare il futuro e vedere affacciare al mondo una nuova vita e chi, invece, come Alex, è dilaniato dal dramma di vedere la madre spegnersi e sfiorire sempre più fino a diventare altro da sé. La folle vita, opera dall’ambientazione borghese, pecca però un po’ di buonismo e sembra essere troppo distante dalla vita reale. I registi, infatti, lasciano sullo sfondo le discussioni tra marito e moglie e mostrano, a dire il vero, una nuora fin troppo paziente e indulgente che, pur rimanendo al fianco di lui, non lo spinge mai, come accade purtroppo spesso nella vita reale, a ricoverare la madre in una casa di cura.

Sirot e Balboni lasciano che Le quattro stagioni di Vivaldi fungano da colonna sonora e, simbolicamente, per mostrare lo sfaldamento della mente di Suzanne, ripropongono un foglio di carta che si disintegra nell’acqua, opera d’arte di un’artista che espone nella galleria di lei. Pessima, purtroppo, la traduzione italica del titolo originale (Une vie demente) che rimanda esplicitamente alla demenza.


di Ignazio Senatore
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