Pacifiction
La recensione di Marco Romagna, seguita dalla rassegna stampa a cura di Simone Soranna riguardo a Pacifiction - Un mondo sommerso, di Albert Serra, Film della Critica per l'SNCCI.
Pacifiction – Un mondo sommerso di Albert Serra distribuito da Movies Inspired è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:
«In un’atmosfera di insopportabile disagio, dove le tensioni del mondo lontano si riverberano in una zona apparentemente protetta nella quale una piccola comunità finge di vivere serenamente in un ipotetico paradiso, Albert Serra con Pacifiction conferma la sua raggelante, inesorabile lungimiranza osservativa, destrutturando storie, personaggi e immagini in un’impalpabile attesa dell’irreparabile. Monumentale Benoît Magimel».
La recensione
di Marco Romagna
«La politique c’est comme la discoteque». Una danza infernale, un’esibizione che mette in scena il Potere e ne interpreta le apparenze pur senza avere reale voce in capitolo sulle sue decisioni, un momento di sospensione in cui muoversi tutti insieme senza mai realmente andare da nessuna parte, ma al massimo «a spirale». È per questo che Pacifiction, con il suo magnifico titolo che fonde insieme la finzione, la pacificazione e il Pacifico (e che non ha assolutamente alcun bisogno del pleonastico sottotitolo italiano Un mondo sommerso, ma al massimo del francese e ben più poetico Tourment sur les îles con cui fu presentato nel concorso principale di Cannes 2022), non procede mai in maniera lineare, ma sempre consapevolmente in tondo. Per quasi tre ore di un colossale, assoluto, incomparabile, monumentale giro a vuoto sul girare a vuoto, sull’impossibilità di agire, sull’impotenza, sull’inutilità del Potere, sulla futilità di ogni Sistema politico, sul concetto stesso di sospensione. L’approdo definitivo del catalano Albert Serra a quella pura opera d’arte – e non più “solo” cinema d’autore – con un lavoro suggestivo e viscerale, al contempo perfettamente (anti)narrativo e perfettamente installativo, fortemente concreto eppure pienamente astratto nella sua metafora politica e nel suo indagare il dilemma, l’irrisolto, l’inafferrabile, l’oblio, la potenziale attesa dell’irreparabile. Il non sapere in realtà nulla e il poterci fare ancora meno, ma il dover andare comunque avanti nel proprio ruolo di mediatore, fra continui appuntamenti, viaggi, conoscenze e colloqui che non arrivano mai a un punto. Con indigeni e popolani, con ammiragli e rappresentanti dell’uno e dell’altro Stato, con candidati sindaci di elezioni probabilmente truccate e dissidenti da cercare di tenere a bada, con potenze da tentare di ammorbidire nelle «vanità che guidano i governi» e con il confine a volte sottile fra complottismo e reale minaccia, fra magnificenza e distruzione, fra vita e apocalisse. Fra imperialismo e resistenza, impegnati in continui conflitti da trovare il modo di disinnescare con fiumi di parole al vento, compromessi e promesse impossibili da mantenere.
Questa volta non serve più tornare alla letteratura o al passato dell’Ancien Régime, ad Albert Serra. Così come non gli servono più Don Chisciotte, né Casanova, né il Re Sole, né i libertini à la De Sade dei film precedenti. Gli basta la Polinesia di un presente ipotetico, al contempo vero e falso paradiso con la bellezza naturale di Tahiti contrapposta alla sua ostentata impostazione turistica; una Polinesia al contempo viva e morta nella sempre più pressante minaccia dell’apocalisse, fatta di tensioni interne ed esterne che si riflettono nella falsa e impossibile simulazione di armonia fra gruppi e stratificazioni sociali, e che Serra mette in scena tanto nella sua quotidiana sospensione temporale, da qualche parte fra gli stessi abiti floreali o bianco panna dei dipinti di Gauguin e la (eterna) contemporaneità dei cieli che spettacolari si tingono di rosso al tramonto, quanto nella sua sospensione politica da qualche parte fra il colonialismo ancora in corso e l’autodeterminazione, o per lo meno l’autodifesa, dei popoli. E poi basta il ruolo di Alto Commissario, di fatto un mero rappresentante dello Stato francese senza reale potere, senza possibilità di scegliere e spesso nemmeno di sapere quali siano le decisioni prese da Parigi su quella che solo nominalmente, ma non di fatto, è sua giurisdizione. Bastano i casinò da riuscire ad aprire a ogni costo, i locali notturni in cui «De Roller non ha bisogno dell’invito», le improvvise aperture in grandangolo sugli scorci più paradisiaci, la ex-receptionist e ora nuova assistente transgender Shannah – «Sarai i miei occhi» – che sa rendersi indispensabile facendo scomparire e riapparire i documenti diplomatici di un cliente del suo resort di lusso. Basta cavalcare un’onda, con una barca o con una moto d’acqua, fra gli sguardi del binocolo verso un (forse) sottomarino e le preoccupanti voci su una possibile ripresa di esperimenti nucleari come un nuovo Godot da aspettare (forse) invano, fra i continui vagare in tondo del protagonista e le venature del suo umorismo sardonico nerissimo. Basta la paura, di ciò che non si sa, di ciò che si teme, del rischio che sia già troppo tardi, dell’impossibilità di poter fare alcunché di concreto. Di essere scoperti nel proprio bluff.
Un lavoro per il quale, stando alle dichiarazioni da lui stesso rilasciate in occasione di conferenze stampa e incontri con il pubblico, Albert Serra avrebbe girato in digitale 4K, sulla base di un canovaccio, una mole di circa 540 ore, con l’attore principale Benoît Magimel diretto via radio in auricolare e largo spazio alle improvvisazioni dell’intero cast, per poi (ri)costruire il film in montaggio, aggiungere grana e saturazioni analogiche stampandolo su pellicola 35mm, e infine scansionare l’emulsione e riversarla nuovamente in digitale in modo da poter intervenire in color correction su ogni singolo dettaglio e su ogni singola sfumatura. Il risultato è un capolavoro cristallino, visivamente sontuoso, fatto di luci e di ombre, di figure (sperse) nel paesaggio e di affascinanti deflagrazioni cromatiche sotto i cieli striati dell’imbrunire, di combattimenti fra galli e di danze polinesiane a rievocarne la violenza coreografica e «la barbarie». Ma anche di MacGuffin che si intrecciano liberi, di insistite divagazioni, di dilatazioni temporali e di geniali ellissi a troncare l’apice dei discorsi per staccare su tutt’altro momento e ritornare di fatto sempre al punto di partenza. Che siano aborigeni preoccupati per la possibile distruzione della loro terra o popolani a cui basta una voce non confermata per annunciare la decisione di ribellarsi, che siano diplomatici totalmente ubriachi che nemmeno riescono ad alzarsi dalla sdraio o sacerdoti che si oppongono a trasformare la propria chiesa in una sala slot, che siano acidi ammiragli della Marina che spronano gli uomini al sacrificio o inquietanti e anonimi rappresentanti del Potere che, come deus-ex-machina lynchani, sono presenti a ogni fase saliente e osservano tutto da dietro gli occhiali senza mai pronunciare una sola parola. Un (necessariamente) finzionale (e quindi impossibile, inutile) tentativo di pacificazione, in cui la narrazione si destruttura fino a disintegrarsi nei frammenti di un mosaico beffardo e dadaista di attese e sospensioni, in cui la politica è pura rappresentazione che non può fare altro che recitare il potere che non ha, e in cui la Natura deflagra potente nei suoi sprazzi di assoluta, fragilissima bellezza.
Una breve rassegna della stampa italiana sul film
(a cura di Simone Soranna)
Sin dalla sua prima apparizione al Festival di Cannes 2022, il film di Albert Serra ha riscontrato un’ottima accoglienza da parte della critica più specializzata mentre ha ottenuto commenti più tiepidi da quella generalista.
Francesco Alò, sulle pagine de Il Messaggero, apostrofa il lungometraggio come «il film peggiore del concorso […] lagna geopolitica di quasi tre ore a base di nightclub con polinesiani in mutande fosforescenti, agenti Cia muti e francesi ubriachi». Mentre è di un parere totalmente opposto Giona A. Nazzaro che, su FilmTV, si domanda: «E se Albert Serra fosse il più “geniale” pensatore audiovisuale in attività? Pacifiction (e il calembour del titolo da solo vale una Palma) è prima di tutto una feroce e sardonica riflessione sull’eredità coloniale francese (e per estensione del colonialismo tout court)».
Anche Massimo Causo, nella sua recensione pubblicata su Duels, esalta il progetto. Afferma infatti il critico: «Albert Serra gioca con materiali candidi e pesanti allo stesso tempo, e realizza un’opera immancabilmente sfuggente e limpida. Una cartolina dalla fine del mondo, con sullo sfondo un invisibile fungo atomico: perifrasi per dire, senza nemmeno saperlo, il baratro su cui stiamo tutti evidentemente danzando». Del medesimo entusiasmo è Bianca Montanaro la quale, su Cinelapsus, scrive: «con quest’ultimo film Serra raggiunge forse l’apice della sua forma cinematografica e approda finalmente ad un’opera pienamente installativa che altro non è che un viaggio ipnotico e meditativo all’interno dei gironi di una suadente metafora politica. Questa perde i netti confini storici che caratterizzavano le precedenti ispirazioni di Serra, dalla Spagna di Don Chischiotte di Honor De Cavalleria in poi: non c’è più Ancien Regime, non più l’illuminismo, non più il diciassettesimo secolo, ma la geografia vaga della Francia repubblicana e del suo retaggio coloniale, con i suoi lasciti, i suoi rapporti internazionali e le collettività d’oltremare».
Le fa eco Aldo Spiniello, che su Sentieri Selvaggi affronta proprio questa stessa questione: «Albert Serra si libera delle coordinate temporali, dei costumi, delle parrucche della Francia del Settecento di La mort de Louis XIV e di Liberté, per viaggiare alla volta della Polinesia francese. E sembra quasi ritrovare l’immaginario di Gauguin in fuga, alla scoperta di Tahiti, il paradiso aurorale di un mondo prima dell’inizio della Storia».
Raffaele Meale, per Quinlan, riporta alla memoria alcune dichiarazioni passate del regista, utili per mettere meglio a fuoco questo affascinante oggetto che è Pacifiction. Scrive così il critico: «Quando esordì diciannove anni fa, nel 2003, con l’oramai dimenticato Crespià: the Film not the Village, l’allora ventottenne Albert Serra affermò: “Volevo fare un’opera d’arte, ma non sono stato in grado di realizzare la mia ambizione. Ho finito per fare un film d’autore”, per poi aggiungere “Odio i documentari. Sono la scusa perfetta per le persone prive di immaginazione. Ma se questo film è il ritratto di un mondo che è prossimo a svanire, può essere considerato un documento“. Nonostante siano trascorsi quasi due decenni da quelle affermazioni Serra non sembra in alcun modo aver modificato il proprio punto di vista, continuando a rifuggire in maniera decisa il documentario ma mettendo in fila un numero non indifferente di documenti, e ricercando l’opera d’arte pur essendo incasellato oramai nel “film d’autore”».
Sullo stesso aspetto si interroga anche Valerio Sammarco per La rivista del Cinematografo, in cui afferma che si tratta di «un film che resta, ipnotico, dalle atmosfere oniriche e surreali, nonostante la durata non agevole, proprio perché difficilmente catalogabile, ambizione che più spesso dovrebbe accompagnare il senso di un racconto, di una messa in scena. Invitare al dubbio, sospendere il ragionamento, fermarsi di fronte al mistero di un’alba. E di un tramonto».
di Marco Romagna