La casa degli sguardi
Le recensioni di La casa degli sguardi, di Luca Zingaretti, a cura di Mariangela Di Natale e Mariella Cruciani.

La recensione
di Mariangela Di Natale
La casa degli Sguardi, che segna l’esordio alla regia di Luca Zingaretti, è un film intenso sulla «speranza, l’amore e l’amicizia capaci di parlare a chiunque». Liberamente ispirato dal romanzo omonimo di Daniele Mencarelli del 2018, vede protagonista Gianmarco Franchini, insieme allo stesso Zingaretti, con Federico Tocci, Chiara Celotto, Alessio Moneta, Riccardo Lai, Marco Felli, Cristian Di Sante, Filippo Tirabassi.
È la storia di Marco, detto Marcolino, interpretato da Gianmarco Franchini (autentico nell’identicare fragilità e tenerezza, già visto di recente in Adagio di Stefano Sollima, 2023) che, dopo la morte della madre, cade nelle dipendenze da sostanze aggrappandosi all’alcool, la sua “medicina” quotidiana. Il suo atteggiamento di autodistruzione lo isola dagli amici e lo separa dalla fidanzata, ma Marco riesce a trovare un po’ di conforto nella sua grande passione che è quella di scrivere poesie. Il padre, un uomo modesto e umile interpretato da Luca Zingaretti, gli resta accanto e gli trova un lavoro come inserviente presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. Fra alti e bassi, fra tentativi di disintossicazione e ripetute ricadute, quello di Marco sarà un cammino alla riscoperta di se stesso aiutato dal padre, colleghi e dal nuovo amore.
Un racconto coraggioso sul rapporto fra i giovani e la dipendenza da alcolici, nella spirale di solitudine, prostrazione e vergogna, senza facili scorciatoie o paternalismi di sorta nella progressiva liberazione dalla sofferenza. La casa degli sguardi parla del dolore non come conseguenza, ma come tappa della vita per ritrovare la felicità e la gioia. La sceneggiatura scritta da Zingaretti insieme a Gloria Malatesta e Stefano Rulli è capace di cogliere, oltre al disagio interiore di Marco che si anestetizza per vivere, tutte le sfumature della vita nel percorso di speranza e riscatto di un protagonista straordinario che, con grande sensibilità e consapevolezza offre una visione sincera dell’esistenza. C’è quasi un presentimento che circonda Marco per tutto il film, soprattutto quando si aggrappa all’alcol, cioè la vergogna verso il prossimo (”si mette il cappuccio e tiene la testa bassa”) che inizialmente lo portaa isolarsi da tutto: si allontana dagli amici, dal padre e dalla fidanzata. Ma è solo nel momento in cui ritrova l’amicizia (attraverso i colleghi), l’amore e il lavoro (che radica l’essere umano) che il protagonista ricorda il valore di certi aspetti della vita, si rimette in piedi, «alza lo sguardo e guarda negli occhi» e si riprende la sua dignità.
La pellicola evita di usare esclusivamente toni negativi, esprimendo la delicatezza e gentilezza di chi ha sofferto e continua a soffrire cercando disperatamente di salvarsi attraverso la poesia «fonte di bellezza» e cogliendo rari momenti di gioia che la vita gli offre. Il rapporto autentico e toccante tra Marco e suo padre diventa di salvezza e redenzione, che riflette sul tema relazionale tra genitori e figli che attraversa l’intero lungometraggio.
La recensione
di Mariella Cruciani
Dopo alcuni episodi della celeberrima serie televisiva dedicata a Il commissario Montalbano, Luca Zingaretti debutta ufficialmente come regista con La casa degli sguardi, tratto dal romanzo omonimo (2018) di Daniele Mencarelli.
Il film racconta, con piena adesione emotiva, il dolore, la solitudine, il rifiuto di una vita “normale” da parte di “Marcolino” (un ottimo Gianmarco Franchini), 23enne allo sbando, dopo la morte della madre. Accanto a lui c’è un padre (Luca Zingaretti) che, al contrario, sembra indicare nella routine di tutti i giorni – preparare i pasti, uscire di casa, fare il suo lavoro di tranviere – una soluzione ai problemi della vita.
In seguito all’insistenza paterna, il ragazzo decide, ad un certo punto, di mettersi alla prova e accetta di lavorare per una cooperativa legata all’ospedale pediatrico “Bambino Gesù” di Roma. In questa “casa” speciale, Marco incrocia, tra gli altri, lo sguardo impertinente di un bambino alla finestra, con il quale scatta un immediato riconoscimento e un rapporto di complicità.
Il recupero del “bambino melodioso morto (o creduto tale) dentro di sé”, per dirla con Genet, è il fulcro dell’opera e le scene più emozionanti sono proprio quelle che riguardano l’infanzia del protagonista o dei piccoli ospiti dell’Ospedale, rappresentata con delicatezza e tocco degni di Truffaut.
Anche il finale del film segue questa scia: Marco, al bar, assiste ad uno scambio di tenerezze tra una madre e un bambino e capisce che è da lì, dagli affetti perduti, che bisogna ripartire. Solo i legami, le passioni, gli inattesi squarci di poesia e bellezza permettono, nonostante l’arbitrio del destino, di provare a vivere e costruire qualcosa, imparando, pian piano a prendersi cura di sé e degli altri. In questo senso, il film sembra fare il paio con Nonostante di Valerio Mastandrea: lì è tutto evocato in maniera rarefatta e metafisica, qui tutto è esplicitato, talora in maniera fin troppo didascalica, ma il tema è esattamente lo stesso: la fatica di esistere e l’innamorarsi, di qualcosa o di qualcuno, come unico antidoto e sollievo.

di Mariangela Di Natale e Mariella Cruciani