L’uomo nel bosco
La recensione di L'uomo nel bosco, di Alain Guiraudie, a cura di Boris Schumacher.

Presentato in anteprima all’ultima edizione del festival di Cannes, inserito dai Cahiers du Cinéma al primo posto della loro top ten dei film più belli e importanti usciti nel 2024, L’uomo nel bosco (Miséricorde) di Alain Guiraudie arriva nei nostri cinema a partire dal 16 gennaio, distribuito da Movies Inspired.
Dopo aver vissuto per diversi anni a Tolosa, Jérémie ritorna a Saint-Martial, minuscolo borgo di campagna, per le esequie del panettiere che in passato era stato il suo datore di lavoro. L’uomo, accolto e ospitato dalla vedova Martine, decide di restare in paese per qualche tempo, non avendo fretta di rientrare in città perché disoccupato da qualche mese e ai ferri corti con la compagna. La cosa è mal tollerata da Vincent, il figlio di Martine e del fornaio, nonché amico d’infanzia di Jérémie. Nel borgo da cui mancava da anni, Jérémie ritrova anche altre persone conosciute, come il burbero e solitario Walter e il curato di campagna Philippe che ben presto dimostra di avere una particolare simpatia nei suoi confronti.
Fortunatamente il cinema di Alain Guiraudie, uno degli autori più talentuosi e interessanti del cinema francese, continua a essere e a dimostrarsi libero e anarchico, inclassificabile, restio a farsi ingabbiare o etichettare in un genere specifico. Nel suo nuovo film, il regista di Lo sconosciuto del lago e L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice sembra quasi prendere le mosse da As bestas, il portentoso thriller rurale di Rodrigo Sorogoyen. Entrambi i film sono ambientati in un contesto extra urbano, in piccoli paesi di provincia abitati da uno sparuto gruppo di persone, da una comunità ristretta contraddistinta da codici e legami differenti rispetto a quelli cittadini. In entrambi i titoli, fin dalle prime scene (L’uomo nel bosco si apre con un notevole e suggestivo pianosequenza realizzato con una camera-car) si respira una tensione crescente e palpabile, con rimandi e suggestioni che a tratti sembrano provenire dal genere western (il bar-saloon come luogo di confronto-scontro in As Bestas, l’arrivo in paese dello “straniero” Jérémie nel film di Guiraudie, divenuto dopo anni di assenza un estraneo per la comunità locale).
Le similitudini si esauriscono qui perché nel suo sviluppo narrativo L’uomo nel bosco prende una piega assai diversa rispetto al film di Sorogoyen, decisamente originale, piuttosto sorprendete e inaspettata anche per gli spettatori più attenti e scafati. Nonostante la prima parte si chiuda con un delitto e un relativo occultamento di cadavere, l’opera scritta e diretta da Guiraudie, ispirata al suo secondo romanzo, Rabalaïre, cambia toni e registro nella sua progressione narrativa, facendosi lieve e ironica, quasi surreale per come gestisce certi dialoghi e situazioni. La figura del parroco, placido e imperturbabile, acquista sempre più centralità fino a risultare spiazzante e destabilizzante perfino per chi conosce in modo approfondito la filmografia del regista francese, contraddistinta da una totale libertà a livello creativo e narrativo e da una dirompente carica dissacrante che rendono il suo cinema eccentrico, unico e inconfondibile.
Come sempre nei lavori di Guiraudie – e L’uomo nel bosco non fa eccezione – c’è una forte tensione (omo)erotica, un desiderio che emerge con forza e spesso in modo inatteso e inaspettato. Il titolo originale, Misericordia, preferibile a quello italiano che punta tutto sulla componente di genere thriller/noir presente nella prima parte e poi accantonata dal regista francese per affrontare la storia da un punto di vista morale, riprende temi e aspetti del cattolicesimo (a cui si aggiungono il perdono e la tolleranza) in modo provocatorio e dissacrante, per forzarli e metterli alla prova fino al punto di rottura, per scardinare la morale comune. Il mistero, l’ambiguità, i giochi di seduzione e le incomprensioni tra i vari personaggi, elementi riccorenti nella fimografia di Guiraudie, non vengono mai meno durante la visione e ci accompagnano fino ai titoli di coda.
Un film “piacevolmente immorale”, com’è stato definito in Francia, sul filo tra la questione morale presente nel cinema di Bresson e il Pasolini di Teorema, con più di un rimando a Persona di Bergman, come ha dichiarato in modo esplicito il regista francese in un’intervista rilasciata a Roberto Manassero per Film TV, soprattutto per quanto riguarda la sua volontà di osservare e “possedere” i volti dei protagonisti, ripresi e filmati con primi piani stretti a cui non è solito ricorrere.

di Boris Schumacher