Kafka a Teheran
Le recensioni di Kafka a Teheran, di Ali Asgari e Alireza Khatami, a cura di Anna Di Martino e Ignazio Senatore.
La recensione
di Anna Di Martino
Il film si apre con un’inquadratura di Teheran, osservata a lungo dall’alba al tramonto, per passare ai vari episodi che raccontano il vivere la città nella quotidianità.
Si parte con il racconto di un neopadre che vuole registrare il proprio figlio all’anagrafe e che gli viene impedito di mettere il nome di David perché è un nome straniero ad altri episodi grotteschi e quasi comici se non fossero riprese di vita vissuta nel XXI secolo in un paese dove il potere vuole controllare la popolazione in modo bieco, dove non è possibile un dialogo, dove si esce sconfitti se non si rispettano le “regole” e ciò che dall’alto è stato decretato.
Passiamo da una situazione all’altra per addentrarci nel modo paradossale iraniano rappresentato ora da un impiegato o da un commesso, da un poliziotto o da un insegnante che impongono a qualcun altro ciò che il governo ha stabilito, persone che non vengono inquadrate e che non vediamo perché sono le persone vessate e che subiscono i soprusi i soggetti che la macchina da presa inquadra e pone al centro: una ragazzina che in un negozio di vestiti deve provare controvoglia degli abiti della tradizione che la coprono e che le impediscono di ballare, come vorrebbe, la musica che sente in cuffia; una donna che cerca di recuperare il proprio cane sequestrato dalla polizia; un regista che deve affrontare un censore del ministero della Cultura che gli chiede di rivedere la sceneggiatura, perché non è edificante che un film parli di un figlio che uccide il padre; un’adolescente accusata dalla dirigente scolastica di essere stata vista con un ragazzo in città, l’unica che tramite il ricatto ribalta la situazione a suo favore uscendo dall’incontro/scontro non del tutto sconfitta.
Dopo questa serie di episodi che si susseguono, che danno l’idea dell’impotenza del cittadino nei confronti delle istituzioni, ci si chiede in che modo potranno cambiare le cose in Iran e l’unico modo possibile, che in qualche modo suggeriscono i registi, è un terremoto, sia fisico che del sistema.
Kafka a Teheran, il cui titolo originale è Versetti terrestri (un riferimento alla poetessa persiana Forough Farrokhzad che sfidò il regime iraniano negli anni ‘60), è una rappresentazione dell’Iran semplice ma agghiacciante, realizzata in economia, con poche riprese ma molto efficace che ci dà l’idea delle vessazioni e delle prepotenze che costantemente un iraniano deve subire da chi governa il paese. I due registi Ali Asgari, iraniano che ha studiato a Roma, e Alireza Khatami hanno costruito un film perfetto, breve ma incisivo, molto toccante, che non può lasciare indifferenti.
La recensione
di Ignazio Senatore
Ma chi ha detto che per fare un film che ti scavi dentro e lasci il segno, occorrano ingenti mezzi economici, effetti speciali e grandi attori? Lo conferma questo lavoro a episodi dei registi iraniani Ali Asgari, Alireza Khatami, che illustrano le difficili condizioni nelle quali sono costretti a vivere i loro connazionali.
Nel primo episodio, un papà, per accontentare la moglie che gli ha appena scodellato un bel marmocchio, vorrebbe chiamarlo David. Il funzionario l’informa che non può dare al neonato un nome occidentale; Farbod, chiede il rinnovo della patente, ma non glielo concedono perché ha tatuato sul proprio corpo una poesia intesa come un inno all’alcol; Siamak è chiamato per un colloquio di lavoro, ma non è così ferrato sulle scritture sacre ed è scartato; un regista scopre che può essere autorizzato a girare il film, a patto che stravolga la sceneggiatura, ritenuta irrispettosa.
Ancora più sofferti e dolenti i ritratti femminili; Selena, è una bambina che ama ballare al ritmo della musica. La madre l’accompagna in un negozio perché deve comprare una nuova uniforme per la scuola. Alla piccola piace il rosso, ma la commessa le dice che è un colore non ammesso e la prega di indossare un anonimo camicione di color grigio, con tanto di velo; ad Aran le contestano di essere arrivata a scuola in moto con un ragazzo e non con lo scuolabus; a un’altra giovanissima, dai capelli rasati, le ritirano l’auto, convinti che, mentre guidava, non aveva indossato il velo che non le copriva i capelli. Un giovane donna fa un colloquio di lavoro ed è costretta a subire le avance di chi le propone un lavoro.
Un film povero, ma coraggioso, girato in interni, con la camera fissa puntata su chi è chiamato a rispondere alle insidiose e preconfezionate domande degli intervistatori mai mostrati e presenti solo la loro voce fuori campo. Uno spaccato asciutto e amaro, girato senza enfasi, che documenta la rigidità di un mondo che non permette la benché minima violazione di regole ferree e di una dura repressione
di Anna Di Martino e Ignazio Senatore