Killers of the Flower Moon

La recensione di Giampiero Frasca, seguita dalla rassegna stampa a cura di Simone Soranna, riguardo a Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, Film della Critica per l'SNCCI.

Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese distribuito da 01 Distribution è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:

«L’ennesima riprova di un gigantesco autore che, anche quando è prodotto da una piattaforma è capace di reinventare il proprio grande cinema: un film fluviale, dal ritmo disteso eppure impietoso, in grado di dialogare con le forme della serialità televisiva riuscendo a riprodurre la propria limpida visione del mondo. Un’opera sulle origini dell’America, il capitale che la consuma, l’homo homini lupus tra culture che la anima e la strema, in una storia americana, che grottescamente e implacabilmente racconta la scomparsa dolosa dei nativi, con un finale sardonico sulla società dello spettacolo».

La recensione
di Giampiero Frasca

Lo Scorsese che non ti aspetti. Killers of the Flower Moon è il primo western del grande autore ed è il tardo frutto di un lunghissimo inseguimento, partito all’esordio nel lungometraggio, quando in Chi sta bussando alla mia porta? Harvey Keitel disse a Zina Bethune che tutti avrebbero dovuto amare il western, perché si sarebbero risolti molti problemi. Al western Scorsese vi giunge 56 anni dopo, allo scoccare degli ottant’anni. E con l’età che avanza, dopo decenni di cinema in perenne movimento, ritmato e visivamente stordente, si affida totalmente alla forza di una storia pressoché sconosciuta, tratta da un romanzo di David Grann e preparata per sei anni, facendo riferimento alle poco edificanti origini della nazione, allo stesso modo di Gangs of New York, ma servendosi della stessa liturgica capacità di riflessione di Silence e Kundun.

Killers fo the Flower Moon, con i suoi tempi distesi, sviluppati in una lunghezza fiume che a qualcuno ha ricordato il Cimino de I cancelli del cielo privato di ogni eccesso, mostra fin da subito una vocazione al racconto, al piacere della narrazione. Non è un caso che nel sorprendente finale, quando il film ha una decisa virata metanarrativa, lo stesso Scorsese si riservi il ruolo del regista di un radiodramma (paradossale, perché visivamente ricchissimo) e chiosa con il finale l’intera vicenda.

Nel corso degli anni Venti, in Oklahoma, i membri della tribù degli Osage, arricchitisi inaspettatamente con il petrolio della terra loro riservata, sono uccisi uno dietro l’altro in modo talmente brutale e ripetuto da causare l’intervento dell’FBI. Ci sarebbe materia per un’azione concitata e spettacolare, tutta ruotante intorno all’investigazione, e invece ci si immerge completamente nel sacrificio quasi rituale di una tribù che ha avuto il torto di essere baciata da una fortuna subito limitata dall’avidità dei bianchi, criminali occulti ammantati di candore falsamente paternalistico. In questo, la prova di Robert De Niro, vecchio patriarca dalle espressioni contrite e dall’azione manipolatoria e spietata, è sicuramente una delle migliori degli ultimi anni della sua carriera, troppo spesso inflazionata in operazioni dal dubbio gusto. Diverso invece il discorso per DiCaprio, travolto da una recitazione a scatti, preda di tic non sempre motivati e di reazioni talvolta fuori sincrono, pur avendo il ruolo più interessante, quello di un personaggio stretto tra passione, obblighi di devozione e una friabile personalità.

L’immersione operata da Scorsese è quasi ipnotica: i movimenti di macchina accompagnano l’incedere dolente dei personaggi; i primissimi piani, soprattutto quelli sulla maschera di progressiva sofferenza di Lily Gladstone, sono superfici in cui lo sguardo si fissa per smarrirsi, cullato da parole caratterizzate sempre da un senso duplice e occulto, espresse in una forma che nasconde una minaccia tesa all’annullamento della persona per assumerne funzioni e prerogative. Il soffuso accompagnamento musicale di Robbie Robertson (ex The Band e quindi già protagonista con Scorsese de L’ultimo valzer) è una tessitura continua di chitarra dark western che avvolge e stringe, un mantra funebre ossessivo che ambienta e angustia, tanto più se si pensa che quello che si sta ascoltando è il testamento del musicista, morto poi quest’estate.

Scorsese è lì, a osservare, anche se in modalità inconsuete. Non c’è l’ironia che di solito riserva agli italiani, non c’è l’insistenza sulla gang, perché decide invece di concentrarsi sul demiurgo che tutto prevede e a tutto provvede, ma le esecuzioni conservano comunque quell’aroma caratteristico da Goodfellas, anche se con cappellone. E anche lo stile, seppur tenuto a bada, si anima come un accento improvviso in movimenti repentini della macchina da presa, pronta a schiaffeggiare l’area della messa in scena con il suo proverbiale dinamismo connettivo oppure a osservare dall’alto, a piombo, da quel punto di vista che gli americani ascrivono a Dio. È una notazione d’autore, una sorta di firma, di chi conosce perfettamente cosa sia il cinema e anche le sofferte contraddizioni su cui è stata edificata la nazione. Ancora una volta, America 1929 (più o meno): sterminateli senza pietà.

Una breve rassegna della stampa italiana sul film
(a cura di Simone Soranna)

Sin dalla sua presentazione al Festival di Cannes, la critica italiana ha accolto favorevolmente (quasi) all’unanimità il film di Martin Scorsese. Sulle pagine di Cineforum, Roberto Manassero colloca la pellicola all’interno della filmografia del regista in maniera molto coerente. Scrive infatti il critico: «Il film è costruito ancora una volta su un triangolo di personaggi, Ernest, William e Mollie, come in passato Toro scatenatoIl colore dei soldiCape FearL’età dell’innocenzaCasinò, lo stesso Gangs of New York, e allo stesso modo, ancora una volta, il racconto segue due stranieri (Ernest e William) che entrano in un mondo al quale appartengono in parte (per matrimoni mezzosangue o legami d’interesse) e lo vogliono conquistare in modo maldestro». Gli fa eco Emanuela Martini che, sulle pagine di Film Tv, denota un’altra rima interna tra questo film e la carriera del regista: «Robert De Niro ha sul volto, in primo piano, l’identica espressione che aveva in Quei bravi ragazzi quando invitava paterno Lorraine Bracco ad andare a prendersi una bella giacca di pelle in uno dei magazzini lungo il porto. Il Lupo cattivo travestito da nonna, in questo caso da zio, oppure “the King”, come lo chiamano gli osage, sui quali lui stende la sua bonaria protezione».

Sulla coppia di attori, si concentra anche Pedro Armocida invece, nella recensione scritta per Il Giornale, si concentra sulla coppia di attori protagonisti, a favore dell’interpretazione di Robert De Niro: «Killers of the Flower Moon mette insieme due attori feticcio del cinema di Martin Scorsese: Leonardo DiCaprio, non del tutto convincente nel restituire la complessità di un uomo diviso tra amore sincero e tradimento vigliacco verso la moglie, e Robert De Niro in una delle interpretazioni più memorabili della sua carriera». Anche Alberto Crespi, su La Repubblica, si concentra sulle interpretazioni del cast ma preferisce lodare la performance della terza protagonista: Lily Gladstone. Afferma infatti il critico: «De Niro e DiCaprio duettano con bravura, ma la vera star del film è Lily Gladstone, stupenda attrice della nazione dei Piedi Neri: se non le daranno l’Oscar, intoneremo il grido di guerra».

Federico Pedroni, su Duels, sottolinea l’impianto classicheggiante dell’opera scrivendo che «il tono del film, che dura più di tre ore e mezza, è ampio, epico, onnivoro. Le immagini hanno un respiro classico, luminoso, maestoso. Le inquadrature della villa di Bill “King” Hale ricordano Il gigante di George Stevens; la messa in scena è sontuosa eppure mai ostentata. L’uso consapevole del campo e controcampo, di inquadrature lunghe, di un montaggio mai frenetico regala al film un’aria solenne resa però brillante da una sceneggiatura che, nonostante la bollente materia trattata, si concede alcuni momenti da commedia», e anche Enrico Azzano, su Quinlan, esalta la forma della pellicola: «Martin Scorsese garantisce sul fronte estetico e narrativo il solito elevatissimo profilo, sostenuto dall’ottimo cast, dal budget non indifferente, da una grandeur che rende quantomeno giustizia sul grande schermo agli indiani Osage dell’Oklahoma».

Più freddo invece è il commento di Simone Emiliani, che sulle pagine di Sentieri selvaggi descrive il film più come un’occasione mancata che come un vero successo: «bisogna partire dal gran finale di Killers of the Flower Moon perché proprio lì ci sono tutta la spinta e l’energia mancate invece per quasi tutto il film. Lì è racchiusa una (im)possibile serie ‘true crime’ che Scorsese avrebbe potuto realizzare proprio per Apple TV+, con le forme di un cinema che si mostra nel sogno di backstage attraverso la voce e i rumori di forchette, bicchieri, bottiglie che si stappano. Proprio nell’epilogo Killers of the Flower Moon richiama i bagliori di New York New York e ritrova l’autentico virtuosismo stilistico di Quei bravi ragazzi che, curiosamente, è stato girato quando Robert De Niro aveva più o meno l’età di Leonardo DiCaprio oggi».


di Giampiero Frasca
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