Il ragazzo con la bicicletta
Nel 2008, con Il matrimonio di Lorna, Jean-Pierre e Luc Dardenne avevano suscitato qualche perplessità nella folta schiera dei loro sostenitori (che annovera anche chi scrive). Si trattava, come sempre nel loro cinema, di un racconto la cui intensità emotiva non appannava, tutt’altro, lo sguardo lucido sulle derive della società contemporanea (che i due fratelli non hanno mai spesso di indagare sin dai loro esordi nel documentarismo sociale degli anni ‘70); però il film appariva sin troppo “costruito”, almeno riguardo alla sceneggiatura (tra l’altro premiata quell’anno a Cannes). Con Il ragazzo con la bicicletta, i due cineasti belgi tornano adesso a uno dei temi-chiave della loro poetica cinematografica – la relazione (ambigua e difficile) tra genitori e figli (siano essi naturali o putativi), spesso segnata da violenza e indifferenza; ma, soprattutto, tornano a quella libertà e a quel grado di improvvisazione consapevole -in fase di scrittura ma soprattutto durante le riprese- che rappresenta al tempo stesso il loro metodo e la loro cifra autoriale. Metodo e libertà, rigore formale e tensione verso l’essenziale (dei gesti, delle parole, delle vicende umane) convivono infatti armoniosamente nelle loro opere e si rivelano nell’attenzione assoluta prestata ai volti e ai corpi degli attori e attrici e a come quei corpi e volti – di uomini e donne in carne e ossa prima ancora che dei personaggi – determinano le inquadrature, sfidando ogni messa in scena preordinata; come pure nel rapporto, al tempo stesso partecipe e brechtianamente straniato, che essi instaurano con lo spettatore, grazie, ad esempio, all’uso ricorrente delle “false soggettive”. Ancora una volta poi, trovano qui uno straordinario interprete nel dodicenne Cyril (Thomas Doret), adolescente ribelle, erede diretto, mezzo secolo dopo, dei terribili miston truffauttiani e dell’Antoine Doinel de I quattrocento colpi . Già, perché anche nel cinema dei Dardenne i padri e le madri brillano per la loro mancanza quando non per la loro totale assenza. Ma, a differenza del regista francese e della sua lineare saga autobiografica, i due fratelli creano coi loro film un ambiguo e affascinante gioco di rimandi e incastri narrativi, grazie anche alla presenza ricorrente dei loro attori feticcio.
Fresco del Gran Premio della Giuria (ex-aequo con il turco Ceylan) a Cannes – da quindici anni tappa obbligata per i Dardenne, già insigniti della Palma d’oro per Rosetta nel 1999 e per L’enfant nel 2005, opere indimenticabili insieme al loro film rivelazione La promesse (1996) e a Le fils (2002)- il film segna peraltro, a nostro avviso, uno scarto ulteriore nel cinema dei Dardenne, rischiando, anche in questo caso, di spiazzare i fan e ringalluzzire i detrattori. La ricerca dell’essenziale li spinge qui infatti a comporre una fiaba sociale che, come in ogni favola che si rispetti -ma per la prima volta nella loro filmografia- prevede una sorta di happy end, e fa ricorso (e anche questa è una novità assoluta), sia pure in modo assai poco invasivo, a una tessitura musicale. Come nelle favole, i personaggi amplificano la loro dimensione simbolica e metaforica e questo permette ai Dardenne di lasciare sullo sfondo e dare per implicite le ragioni di fondo -sociali e morali, peraltro ben note- della vicenda (ambientata oggi a Liegi, ma che potrebbe svolgersi in qualunque città europea). Cyril è un adolescente psicologicamente instabile, in cerca spasmodica del padre che lo ha abbandonato (è ancora Jeremie Renier, il padre giovanissimo che ne L’enfant decideva insieme all’altrettanto giovane compagna -salvo poi a sopportare la colpa e l’espiazione- di sbarazzarsi del loro neonato vendendolo per denaro a una gang di trafficanti). L’uomo si dichiara impotente ad accudirlo, sul piano affettivo come su quello economico (lo vediamo infatti impegnato a sopravvivere come cuoco presumibilmente assai precario). Per questo Cyril è stato affidato a servizi sociali che nei suoi confronti adoperano solo l’arma del controllo. Per caso e per necessità narrativa, come nelle fiabe, incontrerà Samantha (Cécile de France, in una interpretazione senza sbavature, anche se non così magnetica come altre attrici dardenniane), una donna adulta, sentimentalmente e lavorativamente indipendente (fa la parrucchiera) che accetta di ospitarlo nei fine settimana, facendosi garante nei confronti dell’istituto di rieducazione. Nell’assenza, inspiegata ma significativa, della madre naturale (come già accadeva ne La promesse), Samantha diviene una madre sostituta, ma forse, ancora di più, la prima persona amica nella vita di Cyril.
Il film racconta infatti la costruzione della loro relazione, dapprima per entrambi un po’ strumentale, poi sempre più intensa e vera. Quel cinema dell’incomunicabilità tra adulti e adolescenti, che spesso escludeva il campo/controcampo tra di essi e che ci costringeva a spiare le mosse dei personaggi per comprendere i loro pensieri e timori più nascosti, finirà per accogliere ed avvolgere insieme la donna e il ragazzino nelle stesse inquadrature, sino alla serena passeggiata in bicicletta del finale. Ma sarà un percorso accidentato, pieno di strappi e di sobbalzi e di continui cambi di direzione. Come le inquadrature che inseguono Cyril, prima nelle sue fughe a piedi “a bout de souffle” per le strade della città e poi in sella alla sua bicicletta (recuperata grazie a Samantha), simbolo ambivalente del suo rapporto con il padre e della transizione all’eta adulta. Perché, si diceva, è una fiaba sociale, e i Dardenne, attraverso essa, ci parlano anche della realtà e della violenza del nostro tempo (simboleggiata dall’incontro con il capo di una gang giovanile che lo ingaggia per un’aggressione). Salvo sottrarsi e sottrarci a sviluppi realistici e conclusioni sociologiche, ma affidandosi a una svolta narrativa (che non riveliamo a beneficio di chi deve ancora vedere il film) quasi “miracolistica”. Fiabesca, appunto.
di Sergio Di Giorgi