Il pianista

Nelle ultime memorie cinematografiche dell’Olocausto figurano le opere di Steven Spielberg (Schindler list), diFrancesco Rosi (La tregua), di Roberto Benigni (La vita è bella), di Costa Gavras (Amen), cui si aggiunge una nuova ossessione polanskiana, Il pianista, ispirato all’autobiografia di Vladislav Szpilman, che contiene più di un motivo caro al regista cosmopolita di origine polacca.
Il primo, di natura autobiografica, perciò non formale, si concentra nella prima parte del film, ossia nella costruzione del ghetto di Varsavia, la sua topografia, le gerarchie, le miserie. Nei pochi chilometri quadrati, accanto al popolo ebreo polacco della capitale, si aggirano i fantasmi di un giovane che ha conosciuto la fuga da un altro ghetto, quello di Cracovia, la città di Polanski. Sempre più frequentemente lo spettacolo della Storia messo in scena dal cinema si rivela comunque, nonostante i virtuosismi nascosti o manifesti nella parte più “visibile” del cinema contemporaneo, debole e insufficiente rispetto alla complessità della Storia stessa, di cui si vuole dare solo una “singola immagine idealizzata”. Oggi il cinema resta sempre un po’ indietro rispetto alla realtà, non avendo più nulla da sperimentare.
Il secondo, squisitamente polanskiano, riflette la natura claustrofobica dell’angoscia dell’individuo alle prese con la propria solitudine e con la violenza della Storia, pur fatta di uomini, che in questo caso invece sostituisce l’horror vacui di opere paradigmatiche come L’inquilino del terzo piano. La sopravvivenza nel ghetto in fiamme presidiato dai nazisti e le vicissitudini del pianista costretto a spostarsi da un nascondiglio all’altro, avendo sempre salva la vita, fanno di lui un moderno eroe che tuttavia rimanda, in una prospettiva romantico individualista, ad un’idea ambigua di pacificazione tra le vittime, alle virtù artistiche (quelle poi dello stesso Roman Polanski) di un uomo dal divino talento la cui esistenza nella presunta vita spirituale degli uomini è più importante del destino tragico della sua stessa famiglia.
di Maurizio Fantoni Minnella