Gangs of New York

Gangs of New York

Gangs of New YorkDa almeno tre decenni il cinema di Martin Scorsese è riferimento autorevole e autoriale per quanti indaghino sull’antropologia della violenza nella società americana.
Cineasta squisitamente urbano, Scorsese elegge la città di New York, da Mean Streets in poi, a microcosmo della violenza come alterità rispetto alle leggi della società civile. Per lui e per Woody Allen, poeti diversissimi di New York, la città resta semplicemente il centro del proprio universo. Lo conferma anche questo Gangs of New York, opera di notevole sforzo produttivo e progetto per trent’anni desiderato e finalmente realizzato (con Miramax e Alberto Grimaldi fu produttore di Bertolucci, Pasolini, Widerberg), che si presenta come un filmone, a tratti anche geniale (come nella ricostruzione della città primitiva di New York, assai più che nella caratterizzazione dei personaggi), ma affetto da una sorta di schizofrenia congenita, proprio nella rappresentazione della violenza individuale e collettiva.

Gangs of New YorkAl centro le due figure contrapposte, nel rispetto dei canoni dell’intreccio romanzesco, quella di un macellaio razzista e crudele, custode dei valori dei cosiddetti “nativi” (come impropriamente si definiscono gli “americani” per distinguersi dalle popolazioni immigrate), e quella di Amsterdam, figlio di un prete irlandese, anch’egli appartenente ad una setta, i Dead Rabbits, e dunque intollerante, ucciso in combattimento dallo stesso Bill il macellaio, deciso fino in fondo a compiere la sua “giusta” vendetta.
Riconosciamo subito che di scorsesiano, nel film persiste la volontà di rincorrere a ritroso le radici per così dire dei suoi “bravi ragazzi”, i cosiddetti “manovali del crimine”, mai così ben raccontati come suo capolavoro Godfellas. E ancora il legame, come in questo caso, morboso con la città di New York, sapientemente descritta come un crogiolo di razze, di lingue ma anche di corruzione e di nefandezze, e filmata con un’ambigua commistione di gusto pittorico bruegeliano e di gigantismo hollywoodiano di gusto vetero romanzesco (qualcuno ha usato non a torto l’aggettivo “dickensiano”),alimenta il desiderio, peraltro legittimo, di scavare nella sua mitologia, tuttavia mescolandola ed anche confondendola allegramente con la Storia. E’ una New York ottocentesca (ma ricostruita a Cinecittà), quella voluta da Scorsese, che tuttavia sembra prefigurare l’universo apocalittico di Blade Runner, ma al tempo stesso la dimensione urbana dei “quartieri”, il cosiddetto Five Points, nevrotico snodo di vita popolare e malavita.

Tuttavia è nell’uso del doppio registro della saga cruenta (nel tentativo di recuperare una sorta di mitologia della razza e dell’appartenenza a una fede religiosa, quella cattolica), ma anche insistendo sul classico tema del tradimento nella simulazione dello schema padre-figlio e quello del romanzo di ricostruzione storica (sul tetro sfondo della Guerra Civile), che emerge una contraddizione non risolta: ciò che in realtà la città mostra di orrendo, ovvero di razzista, di intollerante e di classista (come dichiara letteralmente l’affresco finale in cui la cosiddetta guerra di banda, ossia “guerra dei poveri” è interrotta dalla brutalità dei cannoni che sparano sui rivoltosi facendo una carneficina) è pura materia di rappresentazione spettacolare: perduto lo sguardo dolente eppure oggettivo dei suoi film migliori, il cattolico Scorsese, mentre mostra di dichiarare il proprio orrore per la guerra (non voluta peraltro dalla massa dei poveri della città, come nella bella sequenza delle bare allineate sulla nave), sull’altro versante della saga indugia in un epilogo troppo hollywoodiano sulle rive dell’Hudson, sulla vittoria, sia pure amara, dell’eroe (Di Caprio) nel compimento della sua personale vendetta: e dallo sfondo, significativamente emergono prima i morti che tuttavia una giusta causa (quella del nostro eroe cattolico e combattivo) vuole giustificare; nella successiva e ultima sequenza, come in una favola di disarmante retorica, appaiono le immagini in sovrimpressione della New York futura, con infine le due torri gemelle, quasi a volere esorcizzare con ambigua speranza i nuovi orrori di cui l’America è vittima ed anche artefice.


di Maurizio Fantoni Minnella
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