Il giuramento di Pamfir
La recensione di Il giuramento di Pamfir, di Dmytro Sukholytkyy-Sobchuk, a cura di Andrea Vassalle.
Per celebrare la Vigilia di Capodanno, in Ucraina e in alcune zone dei paesi limitrofi si svolge il carnevale di Malanka. La popolazione locale indossa maschere di animali e costumi variopinti o fatti di paglia, muovendosi di casa in casa e intonando canzoni popolari dopo il tramonto, quando secondo la tradizione regnano gli spiriti maligni. È proprio questa festa ucraina a fare da sfondo a Il giuramento di Pamfir, lungometraggio d’esordio di Dmytro Sukholytkyy-Sobchuk, dopo esser già stata protagonista di un suo cortometraggio precedente (Krasna Malanka). Attraverso il carnevale e i suoi tratti ancestrali e ferini, Sukholytkyy-Sobchuk indaga e osserva una comunità liminare e isolata, di un paese, al confine tra Ucraina e Romania, in cui “solamente i vecchi e i malati non fanno contrabbando”, alla mercé di un sistema paramafioso improntato su intimidazioni, dominio e violenza. Una comunità non tanto dissimile da quelle rural-montane mostrate in As Bestas e Animali selvatici, anche in questo caso, come nel film di Sorogoyen, introdotta da tradizioni popolari che ne diventano metafora.
Leonid, soprannominato Pamfir dal nome del nonno, al ritorno in Ucraina dopo un periodo all’estero per lavoro tenta di mettere ordine alla propria vita, recuperando i legami familiari con l’intento di proteggere il figlio e di assicurargli un futuro. Si trova però a dover fare i conti con il passato, con i debiti e con l’anima più oscura e radicata della società, spinto più volte a sacrificarsi in nome del figlio, in quella che diventa quasi una revisione e un ribaltamento del sacrificio di Isacco. Non c’è più spazio per la legge e per la fede e anche Dio sembra aver abbandonato quei luoghi, sostituito, nello scontro tra ortodossia e paganesimo, dal boss locale, che controlla persino la chiesa. Il fango in cui più volte Leonid immerge mani e piedi e i boschi formati da alberi spogli e scheletrici sono il riflesso di quel mondo privo di speranza, dove anche le colline hanno occhi e orecchie e dove gli animali selvatici abitano tanto i dintorni quanto il villaggio stesso. Nella sequenza carnascialesca finale i festeggiamenti rivelano il lato più animalesco, rituale e istintivo di quell’umanità. Non, quindi, il carnevale come rovesciamento dell’ordine sociale e della realtà, con la possibilità di indossare maschere per assumere nuove identità, bensì al contrario una rivelazione e uno smascheramento.
Il giuramento di Pamfir si compone di piani sequenza sinuosi e reiterati, con la macchina da presa che ruota costantemente attorno ai personaggi e a Leonid in particolare, avvolgendolo e anticipandolo nei suoi gesti e negli spostamenti, penetrando la realtà e la comunità mostrata. La camera e lo sguardo su di lui diventano così portatori di un destino all’apparenza ineludibile che incombe in ogni momento, a cui il protagonista tenta di opporsi non tanto per sè ma per il figlio. L’unico barlume di salvezza, attraverso la riscoperta della famiglia e di un’umanità latente, sembra risiedere nel sacrificio.
di Andrea Vassalle