Grand Tour
La recensione di Grand Tour, di Miguel Gomes, designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.
Grand Tour, di Miguel Gomes, distribuito da Lucky Red e in uscita il 5 dicembre, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:
«Il portoghese Miguel Gomes attraversa gran parte dell’Estremo Oriente, filmandone la vita quotidiana e contemporaneamente ricostruendone in studio il passato colonialista (negli anni ’20 del ‘900), con la fuga di un uomo e la rincorsa della sua promessa sposa. Un film unico, documentario e magico, austero e scanzonato, esempio di un cinema uguale a nient’altro».
La recensione
di Juri Saitta
Il cinema di Miguel Gomes è spesso caratterizzato da strutture piuttosto precise e quasi matematiche all’interno delle quali emergono però sviluppi imprevedibili che tendono a disorientare lo spettatore, come dimostrano Tabu e Le mille una notte, film dove la divisione netta in due e in tre parti non esclude divagazioni narrative e scelte formali inaspettate.
Una poetica confermata anche in Grand Tour, il film con cui l’autore portoghese ha vinto il premio per la regia al 77° Festival di Cannes.
Ambientata nel 1917, l’opera racconta di un diplomatico britannico nel sud-est asiatico che fugge dal matrimonio spostandosi nei vari Paesi del continente inseguito dalla promessa sposa, convinta che l’uomo voglia ancora rispettare l’impegno nuziale.
Una vicenda raccontata dal punto di vista di entrambi i protagonisti e con una costante alternanza tra riprese in bianco e nero girate in studio e riprese documentaristiche, a volte a colori a volte in b/n, che mostrano gli stessi luoghi ma nel tempo presente. Il tutto spesso accompagnato da una voice over che narra le azioni e i sentimenti dei personaggi.
Un assetto filmico, quello ideato da Gomes, fondato sull’alternanza tra opposti – uomo-donna, passato-presente, b/n-colore, fiction-documentario, riprese in studio-riprese dal vero, che se da un lato risulta chiaro nel suo meccanismo, dall’altro costruisce un flusso di tempi, immagini e storie che confonde e disorienta lo spettatore, complice la lentezza del ritmo e una narrazione complessa e dal gusto letterario di non sempre facile fruizione.
E se la struttura sopra citata rappresenta l’incontro/scontro tra oriente (i Paesi in cui si svolge la storia) e occidente (i due protagonisti), il flusso da essa creato sottolinea il senso di perdita e di smarrimento dei personaggi centrali, inghiottiti in un contesto imperscrutabile e culturalmente distante. Questo fa di Grand Tour un film sulla perdizione e sullo smarrimento, in particolar modo di quegli occidentali che hanno colonizzato un mondo che pensavano di poter dominare ma che in realtà non capivano e non conoscevano.
Tutto ciò espresso in un’opera a tratti ostica ma comunque originale e in gran parte affascinante.
di Juri Saitta