A Real Pain

La recensione di A Real Pain, di Jesse Eisenberg, a cura di Francesco Di Brigida.

Dopo l’esordio con il mai uscito nelle sale italiane Quando avrai finito di salvare il mondo, il regista Jesse Eisenberg approda ai nostri cinema con la sua opera seconda, A Real Pain. Qui in Italia lo conosciamo per le buone prove attoriali iniziate con The Social Network, dove raccolse due nomination tra Golden Globes e Oscar per il Miglior attore protagonista. Ma forse l’influenza che in pochi si sarebbero aspettati è stata quella di Woody Allen, che l’ha avuto come protagonista nel suo Cafè Society nel 2016. Sì, perché nel suo film la vicenda dei due cugini agli antipodi che partono insieme dagli Stati Uniti per la Polonia con lo scopo di ripercorrere la vita e la cultura della loro nonna recentemente scomparsa, ha decisamente un impianto da road movie zaino in spalla, ma si sviluppa come una commedia di parola piena di dissacrazioni e trovate argute.

Scrive e dirige nuovamente da solo Eisenberg, ma stavolta alza la posta e incarna il suo protagonista puntiglioso e insicuro nonostante una vita familiare e di successo professionale. Al suo fianco si mette una spalla che si è rivelata fenomenale: Kieran Culkin. Già esploso nella serie Succession, il fratellino che non ha mai perso l’aereo della sua carriera impersona in questa commedia quel parente sopra le righe che fa preoccupare la famiglia quando prende parola ufficialmente. Incurante del giudizio altrui, debordante, rischiosamente empatico e carismatico con chiunque, furbastro e con una discreta dose di narcisismo e leggerezza per le regole, il cugino scapestrato Benji porterà il metodico David a riconnettersi con sé stesso in un viaggio che dondola con stile alleniano su tre dimensioni. Quella del rapporto tra i due, quella dei cugini in viaggio alla scoperta delle loro radici, e quella di una resa dei conti interiore che ognuno affronterà a suo modo.

Come nei migliori viaggi, non è la meta finale che conta, ma le esperienze durante la percorrenza. L’autore riesce a fondere un’ironia intelligente e tutt’altro che superficiale o irrispettosa sul turismo intorno all’Olocausto, dissacra persino la figura neutrale di guida turistica e apre sorrisi che a questo punto immagineremmo a denti stretti. Invece no, perché si ride e bene, ma senza sensi di colpa da cinema demenziale. Padroneggia con maturità la commedia plasmandola con sapienza su un pastiche che riesce a rimanere elegante e formalmente limpido, pur creando un personaggio destabilizzante come il cugino Benji. Uno strepitoso Culkin ha già ricevuto molti premi a riguardo, su tutti il Golden Globe al Miglior attore non protagonista, e per la nomination all’Oscar per la stessa categoria sembra proprio un ottimo outsider. Chissà se il regista di New York con il suo nuovo cinema raccoglierà nel tempo l’eredità del grande Woody. Sta di fatto che c’è un nuovo, ottimo autore cinematografico in circolazione. Uno che i peli non ce li ha sulla lingua, ma sullo stomaco, ma senza tralasciare una profonda sensibilità verso l’animo umano, rigido o borderline che sia. Un ideatore e coltivatore di gag e dialoghi fulminei che sa bene come annaffiarli di moderne fragilità.


di Francesco Di Brigida
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