Lo sperimentalismo artigianale di Cècile Fontaine

Cecile Fontaine

Cecile FontaineNel corso della 39esima Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, sono stati destinati a “Re-naissance: cinema d’avanguardia francese contemporaneo” molti dei pomeriggi in Sala Video e buona parte delle seconde serate al Teatro Sperimentale. Tra i vantaggi di questa suggestiva sezio-ne dell’edizione 2003 va di certo annoverata la nutrita articolazione sottotematica secondo cui il cu-ratore Stefano Masi ha suddiviso la rassegna in ben 6 programmi. Nel primo, La realtà come mi-raggio, si sono esaminate le opere in cui meglio s’amalgamavano tensione documentaristica e cura formale, come in Promeneaux di Stefano Canapa (Francia 2001, 12’) oppure in Terminus For You di Nicolas Rey (Francia 1996, 10’).
Occhi selvaggi prende invece a prestito il proprio nome dal cortometraggio L’oeil sauva-ge della giovane Johanna Vaude (Francia 2000, 14’) per aprirsi al tema della visione, al Cine-occhio di vertoviana memoria. Rivolto alle tecniche di collage e pittura su pellicola, è Negli abissi dell’emulsione che è contenuta la piccola monografia su Cècilè Fontaine su cui verte questo breve saggio. Mentre il quarto programma, Uno schermo non basta, dà il titolo alla parte indirizzata alla contaminante multimedialità di cinema ed espressioni teatrali (concepita tra gli altri da Pip Chodorov e Christian Lebrat); le Perforazioni elettroniche ha invece come protagonista l’ibrida trasmutazione della pellicola in video.

Ma a cosa ci si riferisce quando si parla di “film lifting vs truka”? Cécile Fontaine docet. Oggi docente di Arti Plastiche, Cècile Fontaine nasce nel 1957 a Parigi da papà Pierre, un gendarme in pensione che vive tuttora all’isola della Rèunion (ex colonia francese davanti al Madagascar). È proprio a lui che Cècile deve l’ereditata passione per i filmati cineamatoriali, nonché (materialmente) i grossi quantitativi di bobine in 8mm, 16mm e Super8 su cui ancor oggi opera e che – lontana dalla famiglia per motivi di studio – le vennero per la maggior parte inviati dal padre per tenerla al corrente dello svolgersi delle giornate alla Rèunion. Sono questi home movies che la Fontaine “cannibalizza” come found footage dei propri film di montaggio, spiega entusiasta Stefano Masi alla conferenza e su Les Cahiers de Paris Expérimental (n. 11, giugno 2003).

Alle sovrapposizione di immagini ottenuta dalla stampatrice ottica, detta truka,- sul tavolo della pro-pria cucina, Cècile Fointaine preferisce di gran lunga il film lifting. Questa tecnica (da lei prodigiosa-mente scoperta anni fa grazie ad un errore) sfrutta la stratificazione verticale della pellicola in più sfoglie di gelatina chimica sovrapposte l’una all’altra e si basa sulla loro asportazione e riposiziona-mento ottenuti per mezzo di una temporizzata immersione in soluzioni di detergenti a base d’ammoniaca (come il più normale “Aiax” per vetri, ad esempio) e l’utilizzo di un comunissimo scotch adesivo. Avversa a qualsiasi manipolazione non artigianale della pellicola, Cècilè ha quindi messo a punto due versioni di film lifting: una asciutta, in cui l’emulsione è staccata dallo strappo dello scotch e una umida, ove l’emulsione risistemata bagnata deforma l’immagine. Ma a parte il brio di La pêche miraculeuse (1995, 10’) con inquadrature degne della migliore video-arte, Safari Land (1996, 10’), The last lost shot (1997, 7’) e The best boy friend (2002, 10’) hanno perso pubblico man mano, complice l’ora tarda e forse anche il fasti-dioso crepitio di una visione in continuo disfacimento.


di Sanzia Milesi
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