La scomparsa di Florestano Vancini
Lo scorso 18 settembre, all’età di 82 anni, è mancato a Ferrara, sua città natale, Florestano Vancini. Con lui scompare uno dei registi che più hanno contribuito a fare grande il cinema italiano, specialmente negli anni Sessanta e Settanta. Proprio nel 1960 Vancini, memore della lezione del Neorealismo, e dopo un’intensa attività nel campo documentaristico, gira il suo primo lungometraggio, La lunga notte del ’43, che gli fa subito meritare attenzione e consensi critici, oltre che un notevole successo di pubblico. Considerata oggi retrospettivamente, si può dire che in questa felice opera d’esordio appaiono condensate le principali caratteristiche e, insieme, le qualità migliori del cinema di Vancini. Il film, infatti, rivela subito le sicure capacità professionali ed espressive del regista, che si evidenziano particolarmente nella direzione degli attori e nella ricostruzione degli ambienti, o meglio ancora, delle atmosfere ambientali, e inoltre manifesta, assieme all’interesse per gli avvenimenti storici e alla volontà di ricercarne criticamente il senso, una tensione etica e un impegno civile che poi accompagneranno sempre il percorso creativo del regista. E ancora: il film è tratto da un testo letterario (il racconto di Giorgio Bassani Una notte del ’43), come altri cinque che poi figureranno nella filmografia vanciniana composta da tredici titoli. Per ultimo va detto che il film rievoca un fatto storico realmente accaduto (un feroce eccidio fascista compiuto a Ferrara nella notte del 15 novembre 1943), e Vancini, com’è noto, ha girato più di un film storico tra cui Il delitto Matteotti e Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, che forse è il suo capolavoro e certo è una delle sue opere più compiute. L’attività cinematografica di Vancini, alternata negli ultimi decenni ad alcune regie di sceneggiati televisivi, in conseguenza delle molte difficoltà incontrate a partire dagli anni Ottanta dopo l’insuccesso commerciale di alcuni suoi film, non è stata quantitativamente rilevante, ed è stata un’attività per così dire oscillante, in quanto gli esiti estetici non sempre sono apparsi del tutto convincenti. E tuttavia restano alcune sue opere che, per lo spessore culturale e l’importanza dei contenuti, figurano tra i momenti alti nella storia del cinema italiano. Ne vorrei ricordare, unitamente all’opera prima qui accennata, almeno altre due: Le stagioni del nostro amore (1966) e il già citato Bronte (1972). La prima, basata su un soggetto originale, probabilmente dettato anche da una spinta autobiografica, racconta la crisi politica ed esistenziale di un giornalista, “un intellettuale di sinistra” che vede i propri ideali naufragare nella realtà quotidiana, caratterizzata dal disimpegno ideologico e dal lassismo morale, e che cerca rifugio nel privato senza riuscire ad andare oltre la propria sterile rabbia. Sintomatico e insieme significativo di una fase di passaggio della società italiana, Le stagioni del nostro amore può essere accostato, per alcuni versi, a film come Uccellacci e uccellini di Pasolini e Sovversivi dei fratelli Taviani che trattano, seppure in modi diversi, temi analoghi, lasciando anch’essi trasparire, tra l’altro, un prossimo cambiamento, che di lì a poco diventerà evento storico con il Sessantotto e con tutto ciò che quell’anno cruciale ha comportato. Invece Bronte, come suggerisce il titolo, rievoca un episodio del Risorgimento, troppo e forse non involontariamente trascurato dagli storici, proponendone, appunto, una rilettura storica; una rilettura e dunque un’interpretazione centrata sulla veritiera ricostruzione dei fatti e sulla loro dialettica, non solo e non tanto per accertarne la (relativa) verità, quanto soprattutto per gettare nuova luce sulla loro portata, e dunque sulla Questione meridionale e sulle sue origini. Per come è stato concepito, preparato e realizzato, Bronte appare un raro e probante esempio di film storico in cui alle intenzioni corrispondono appieno i risultati. Come già aveva fatto Rossellini con La presa del potere da parte di Luigi XIV, anche Vancini e i suoi collaboratori (tra cui Leonardo Sciascia) ricorrono dapprima all’esame dei documenti e poi al perseguimento del massimo di verosimiglianza figurativa e discorsiva per arrivare a una rappresentazione la più possibile oggettiva degli accadimenti storici portati sullo schermo, lasciando così allo spettatore la libertà di interpretarli a sua volta, muovendo tuttavia proprio dall’oggettività storica fissata nel film. Si tratta, insomma, di un cinema la cui fedeltà al vero, non viziata da apriorismi ideologici e non disgiunta dalla restituzione della problematicità insita negli stessi dati storici esibiti, riesce a coniugare indagine conoscitiva e funzione didattica, potenziate entrambe dall’uso sapiente del linguaggio filmico. Si deve aggiungere che in film come Bronte, come in diversi altri di Vancini, risulta alla fine implicita anche una critica al potere, e questo ci rimanda alle potenzialità del cinema e, al contempo, al ruolo degli intellettuali e degli artisti che vogliono sentirsi corresponsabili del corso storico e delle condizioni sociali. Proprio come si sentiva, ed era, Florestano Vancini, sia l’uomo che l’artista.
di Bruno Torri