Intervista a Saverio Costanzo

Pubblichiamo un estratto dall'intervista al regista pubblicata sul n. 77 di CineCritica (versione cartacea) Gennaio/Marzo 2015.

Storie quotidiane e personaggi borderline che cercano un’impossibile via di uscita. Con i suoi film, tutti apparentemente diversi tra loro, Saverio Costanzo affronta i temi della sofferenza, della solitudine, della difficoltà del vivere. Un cinema capace di emozionare, far emergere le nostre paure, far rivivere sentimenti altrimenti celati. La solitudine della scrittura, il caos del set, il montaggio vissuto come una seduta psicoanalitica. I segreti di un cinema personale, coerente ed eclettico

Il tuo approdo al cinema ha seguito un percorso abbastanza anomalo.

E’ vero. Studiavo sociologia e, in particolare, mi ero appassionato di etnografia, al punto che decisi di fare la mia tesi di laurea su un bar italoamericano di Brooklyn, il Caffè Milleluci. In pratica la tesi di laurea è diventata un vero e proprio documentario, in cui invece del taccuino usavo la videocamera. Erano appena arrivate   sul mercato delle nuove videocamere della Canon molto innovative,  parliamo di un periodo a cavallo fra il 1998 e il 1999, che assicuravano una soluzione eccellente del suono ma soprattutto mi permettevano di fare tutto da solo. Insomma mi sono infilato in quel bar e per quasi nove mesi ho preso appunti con la videocamera su alcuni avventori, sul loro modo di comportarsi e parlare.

Che riferimenti cinematografici avevi?

La prima ispirazione nasceva dal lavoro di Frederick Wiseman, il grande documentarista di cui vidi alcuni lavori al Lincoln Center e furono davvero una rivelazione. In particolare mi colpiva quella specie di osservazione partecipata, un’apparente glacialità nel trattare la materia ma che in realtà gli consentiva di rappresentarla con grande efficacia. Poi c’era il suo metodo di lavoro, quasi del tutto autosufficiente. Lui lo faceva per scelta, io per necessità.

Puoi dire qualcosa di più su questo tuo primo lavoro?

Scelsi dodici avventori che tutte le mattine si ritrovavano in quel luogo, il Caffè Milleluci, nel cuore di Brooklyn e in una situazione la più lontana possibile dall’immagine tipica di Manhattan. Fuori dalle finestre c’era l’America, la 18^ avenue, e dentro c’erano queste persone che parlavano italiano, leggevano i giornali italiani, socializzavano in quanto compagni da bar, ma in realtà molto diversi tra loro, c’era l’avvocato, l’animatore della comunità, il driver, il muratore, il mafioso. Il grottino del locale, adibito a ristorante al piano di sotto, era il luogo dove Gambino organizzava le sue riunioni. Insomma c’era un mondo all’interno del bar, un altro, diversissimo, fuori.

Che fine ha fatto questo film?

Accadde che mentre lavoravo a questa cosa mi chiamò Gianluca Nicoletti, all’epoca direttore di Rainet News, che aveva saputo di quello che stavo facendo e mi chiese di poter vedere il materiale girato. Gli piacque e lo comprò tutto, perché nelle sue intenzioni c’era di fare un docufilm per la televisione. Però mi lasciò anche la possibilità di utilizzare e montare parte del materiale per i miei scopi. Purtroppo è andato tutto perduto ed è un peccato, anche perché in qualche modo richiama quello che ho fatto dopo: c’era già un dentro e un fuori, un modo di comportarsi delle persone all’interno del proprio spazio e fuori. E’ un tema che ritorna nei miei film.

A proposito di certi temi che ritornano, i tuoi film, anche se molto diversi tra loro, sono in realtà coerenti a livello drammaturgico, come struttura narrativa. A cambiare molto, ogni volta, è lo stile, il modo di raccontare, la forma. Al punto che si può parlare di eclettismo

Coerenza ed eclettismo, forse è vero, però è una cosa che percepisco solo oggi, guardando il percorso fatto. Il discorso dello stile, col tempo, è diventato un problema sempre meno centrale per me. Nell’ultimo film, Hungry Hearts, è come se il discorso sullo stile, sul modo di girare, si fosse in qualche modo chiarito. Lo stile, o meglio la forma con cui si racconta una storia, è ovviamente fondamentale, ma altrettanto importante è la storia che si racconta. Nella mia esperienza ho vissuto momenti di grande impasse, proprio per la mia ossessione di cambiare ogni volta. Per me era una cosa necessaria ma alla fine un po’ mi spaventava e mi faceva chiedere chi ero, a che punto mi trovavo. Se uno vede un film di Fellini o di Sorrentino, dopo un paio di scene riconosce l’autore, mentre io, con il mio modo di girare, mi sentivo escluso da questa possibilità. Il dubbio riguardava la mia identità da autore, forse troppo sfuggente. Sento che ora qualcosa è cambiato. In realtà, cambiare rimane per me indispensabile, perché mi dà l’impressione di scoprire cose nuove, anche di me, insomma non posso rinunciarvi. Però voglio essere ottimista e penso che nei miei film ci sia comunque una matrice comune, una medesima urgenza, qualcosa che comunque li tiene uniti e li fa assomigliare.

Sicuramente c’è una linea comune che riguarda i contenuti: il disagio psicologico dei protagonisti che ad un certo punto della loro vita si ritrovano in situazioni complesse, drammatiche, alla ricerca di una loro possibile salvezza.

Questo non so perché avviene. So che non farei mai un film sulla follia umana, eppure i protagonisti dei miei film da quel punto di vista sono sempre un po’ borderline, con un tratto chiaramente comune. Prendiamo ad esempio il mio primo lungometraggio, Private. Ebbene anche in quel film il percorso che fa il personaggio principale, il capo famiglia (interpretato da Mohammad Bakri), è piuttosto folle, perché cerca e impone una durezza domestica assoluta, costringendo la sua famiglia ad uno stato di guerra permanente anche molto pericoloso. Quello che mi piaceva del personaggio era la sua determinazione verso una pace pura, da raggiungere senza violenza, e per tale obiettivo avrebbe sacrificato anche la vita di uno dei suoi figli. Rivedendo il film dopo tanto tempo mi sono reso conto che ad affascinarmi era proprio quest’atteggiamento un po’ folle, estremo. Nel film successivo, In memoria di me, c’è un personaggio che entra nel monastero per fare una scelta di vita estrema, di ribellione, ma soprattutto per inseguire un’ambizione di purezza, per non rischiare di farsi inquinare dal mondo esterno, ma poi, all’interno di quel luogo, scopre che dovrà accettarsi così com’è, anche con il proprio agnosticismo. Però il suo desiderio iniziale è di vivere una purezza estrema, addirittura utopica. In La solitudine dei numeri primi c’è di mezzo il romanzo di Paolo Giordano per cui è forse più difficile rintracciare questo filo comune, eppure anche lì c’è la pretesa portata avanti dai protagonisti, attraverso un loro processo di scarnificazione disperato e autopunitivo, di raggiungere un’idea di purezza estrema. Il discorso è ancora più esemplare con Hungry Hearts, in cui non è solo la follia o la psicosi dei protagonisti ad essere importante, ma il loro desiderio utopico (perché di utopia si tratta) di mantenersi estranei e incontaminati dal mondo. Forse l’idea di scegliere questi soggetti e poi la decisione di cambiare stile ogni volta è un mio tentativo di essere il più onesto possibile. Provo a cambiare ma qualcosa si ripete, perché la matrice evidentemente è la stessa. Ed ecco allora che arriva la definizione, c’è la classificazione di chi ti riconosce rispetto agli altri registi. Questo, ripeto, l’ho capito solo ora, facendo i miei film. E’ un po’ pericoloso ma inevitabile.

A New York hai cominciato facendo dei documentari. Poi come’è stato il passaggio al lungometraggio?

E’ avvenuto quando ho capito di voler fare veramente questo mestiere.  Mi trovavo nella Striscia di Gaza, ospite nella casa di un signore la cui storia sarebbe poi diventata la base di Private. Pensavo di documentare la sua situazione con la mia videocamera ma lui mi dissuase a farlo perché poteva essere pericoloso: divideva l’abitazione con dei soldati israeliani che avevano occupato il piano superiore. Mi propose però di fare un film sulla sua storia e io ho accettato immediatamente l’idea.

Tu non ti consideri un cinéphile, eppure il tuo è un cinema spesso molto sapiente, ricco di citazioni cinematografiche non banali, certe volta addirittura a livello di inquadrature, di angolazioni della macchina. Due esempi da Hungry Hearts. Il primo è l’inquadratura dall’alto delle scale di casa, quando la nonna incontra per la prima volta il nipotino neonato e cerca di prenderlo tra le braccia mentre la madre lo sottrae. La macchina da presa è posta molto in alto, in verticale rispetto all’azione, quasi la stessa angolazione che Hitchcock fa in Psycho, sulle scale della casa di Perkins. Il secondo è quando Mina, sola in casa, va in paranoia, ed è inquadrata col grandangolo, con le pareti del corridoio che improvvisamente si fanno sghembe, come certe inquadrature di Polanski in Repulsion.

Me l’hanno detto, eppure io non ho mai visto Repulsion, anche se amo tantissimo il cinema di Polanski, e Psycho l’ho visto una sola volta, da ragazzino, e non potevo certo ricordarmi di quell’inquadratura. In compenso in Psycho 3 ha lavorato Roberta Maxwell, che nel mio film interpreta la parte della suocera. Anche in La solitudine dei numeri primi c’è una scena girata nel corridoio di un albergo di montagna in cui ho fatto un piccolo zoom deformante per aumentare il senso della suspense, ma in quel caso pensavo semmai a Shining. In realtà non mi permetterei mai di citare Kubrick o Hitchcock. Quello che penso in proposito è molto semplice: anche se a livelli diversi facciamo tutti lo stesso mestiere, abbiamo tutti a che fare con personaggi e ambienti (scale, corridoi, stanze) e dovendo fare delle inquadrature si arriva spesso alla medesima conclusione, si mette la macchina nella stessa posizione perché evidentemente non si può fare altrimenti. Hungry Hearts è un film da camera, un dramma psicologico con pochi attori, girato in un ambiente molto chiuso, fatto di piccole stanze e brevi corridoi. Le scelte erano davvero limitate. Poi a me piace introdurre l’elemento della suspense in situazioni che non la richiedono, anche molto quotidiane.

In questo caso il riferimento più calzante riguarda Rosemary’s Baby.

Certo. Rosemary’s Baby è entrato nel film senza volerlo. Nella coppia di Hungry Hearts io ho visto molto buio e quindi ad un certo punto ho lasciato un certo spazio ad una dimensione orrorifica, che evidentemente sento mia. Ho pensato anch’io a Rosemary’s Baby, soprattutto al biancore di Mia Farrow, all’Upper West Side, a una particolare New York vista in un certo modo. Ma è una somiglianza solo estetica, un ammiccamento.

Perché proprio New York?

Perché non riuscivo a immaginare questa storia in Italia, sia pure in una grande città. E poi io ho vissuto a New York e conoscevo bene il senso di solitudine e isolamento che vive la protagonista.

Nei tuoi film la vicinanza a un certo tipo di cinema è costante…

A tutti i giovani registi ad un certo punto viene affibbiato un padre putativo. E’ capitato anche a me, però li ho cambiati tutti. Il mio primo film era bressoniano, poi col secondo sono diventato dreyeriano, in La solitudine dei numeri primi c’era l’horror di Dario Argento e Mario Bava, ora ci sono Polanski e Cassavetes.


di Franco Montini Piero Spila
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