Il cinema con la moda di paglia

La moda del momento è un film per ragazzi sulla Moda. S’intitola Zoolander, che poi è il nome dell’esilarante protagonista – Ben Stiller – anche regista del film. Zoolander è un indossatore così trendy da essere il numero uno, proprio come il risultato del suo Q. I. Eppure, vedendo in anteprima il film (uscito da alcuni mesi negli States, annunciato come un successo anche da noi: vedere il sito www.zoolander.com per credere), l’impressione non è quella di un vuo-to d’intelligenza. Anzi. Pare che lo scemo che avanza, avanza in defilé, modello per ragazze e ragazzi che lo imitano in tutto – 192 libbre di Uomo dell’Anno prima della purga, 170 libbre di Maschio Ideale dopo la purga –, pare che Derek Joseph Zoolander, si diceva, possa mettere in moto salutari riflessioni. E non solo perché, alla fine, non ci sentiamo stupidi come lui (idea rassicurante: è la cosiddetta Fenomenologia di Mike Bongiorno, spiegata, ai tempi, da Umberto Eco). Ma anche perché, a ben pensare, il Cinema ha sempre fatto i conti con la Moda, quella che – volenti o nolenti – incide sull’immaginario collettivo di tutti noi. E allora: vedere Zoolander o immaginare, collettivamente, una rassegna su Cinema e Moda, potrebbe riportarci a fare quei conti. Conti non scontati, ve lo assicuriamo. Come risulta dai 10 film proposti qui di seguito.
1) In principio cade l’insegna dell’atelier. Poi cadono le modelle, cadono come mosche, uccise da un serial-killer che concepisce l’omicidio come una sfilata. Colori, tempi, movimenti, messa in scena: tutto è al servizio della passerella dei delitti, e non ce n’è uno che assomigli all’altro. La fantasia è al potere, in Sei donne per l’assassino di Mario Bava (Italia 1964), il film che lanciò la moda del thriller barocco all’italiana, una moda raccolta da Dario Argento, di cui finse di essere l’ideatore. La Moda, quella con la maiuscola, è messa a nudo nelle sue tre “v” vergognose: voyeurismo, violenza, vacuità. Le modelle sono per l’assassino? Molto bene – sembra spiegarci Bava –, e io dimostro come siano per te, spettatore. Per chi gode di un thriller, di una collezione di corpi, proprio come gode d’una collezione nel tempio della Moda. Virtuosistico, delirante e con sprazzi di pop-art ante litteram. La Moda cade, ma chi trova un film cult, trova un tesoro.
2) La Moda soffoca. William Klein, lui, poteva dirlo. Aveva toccato livelli altissimi, nel campo della fotografia, da quando scattava per “Vogue”, a Parigi nel ‘55, e intanto faceva scattare le foto di moda a un livello più in su. Flash aperti, lenti a focale lunga, grandangoli e esposizioni multiple. La top-model Barbara Mullen che fuma una sigaretta col fumo che esce dalle labbra? Un’idea tabù, fino a allora, per le riviste di moda del pianeta. Da allora in poi, un’idea alla William Klein. All’inizio del suo film i>Qui êtes-Vous Polly Magoo? (Francia 1966) c’è una sfilata di modelle soffocate da abiti metallici, mentre i luminari della Moda applaudono. Pare un corteo funerario seguito da parenti imbecilli. E le nuove modelle tipo Twiggy o Jean Shrimpton? Icone da bruciare. Parola di Klein, Klein l’iconoclasta.
3) Una macchina fotografica, Verushka nel mirino, una location – Londra – di grido e swinging, modelle ovunque, ma non funziona. È l’impotenza dello sguardo, della fotografia, dell’occhio soggettivo così come di quello chiamato “obiettivo”. Vedere non serve più a conoscere: né la finzione della Moda, né la realtà. In Blow-up di Michelangelo Antonioni (Italia 1966) si ingrandiscono – «to blow-up» – le fotografie. Ma moda e realtà, se ingrandite, viste da vicino, perdono di senso. Capito questo, non si può continuare. Si può soltanto far finta di restare al gioco, mimare la partita, proprio come nel celebre finale del film.
4) La Moda è un dio morto. In Roma (Italia 1972) di Federico Fellini c’è puzza di cadavere. Sulla passerella sfilano suore di clausura, preti in pat-tini a rotelle, parroci di campagna in bicicletta, abiti senza il monaco, vescovi psichedelici, papi con piume di struzzo. La religione passa di moda? Voilà, passa alla Mo-da.
5) Vita e morte di una fotomodella. Soprattutto morte: Dorothy Stratten è bella, bella come una playmate, ma i paginoni centrali di Playboy la rendono sempre di più una bambolina in mano agli altri, una barbie-girl con cui si può giocare, ma che poi si butta via. Mariel Hemingway – l’adolescente di Manhattan di Woody Allen, modello di ogni purezza, ricordate? – interpreta la storia sporca di Do-rothy, una storia vera. Il film è Star 80 di Bob Fosse (Usa ‘83), para-ta di maschi che perdono i pezzi e le pezze dell’umana decenza: impresari ruffiani, manager paternalistici, protettori gelosi, psicotici, assassini. La dea della Moda è stata uccisa. Lo show deve continuare?
6) Sotto il vestito niente, non c’era bisogno di Carlo Vanzina (Italia 1985) per immaginare che fosse così. Milano è piena di top model, eppure è livida come una fotocopia. Forse è vero, o forse è perché Vanzina fotocopia i film di Brian De Palma. E la morale è sempre quella: una sfilata è un delitto, sembra un’equazione. Il film – di modella in modella – corre come un treno totalmente vuo-to. Il mezzo è il messaggio.
7) La Moda è lo spreco. Le fotografie di Bruce Weber avevano solcato gli anni ‘80, e il suo modo di presentare il corpo maschile non aveva precedenti, proprio come per Robert Mapplethorpe. Quando Weber si avvicina al cinema, il tema dello spreco e della perdita cola giù dai suoi occhi. Vedere per credere Let’s Get Lost – Perdiamoci (Usa 1988), ritratto del jazzista Chet Baker, icona del talento, dello spreco del talento, dell’eroina in vena per rendere fluido lo spreco, accelerare la perdita. Ca-pita, la metafora?
8 ) Parigi val bene una Moda. Durante il periodo del Prêt-à-porter (che è anche il titolo di un film di Robert Altman, Usa 1994), devi essere prêt, pronto, a sopportare l’insopportabile. Sarti dalla nazionalità posticcia, fotografi posticci, giornalisti posticci, pasticci a non finire. Una trentina di effimeri personaggi in rivista, tra cui una stilista a corto di idee (e di vestiti) che fa sfilare le sue modelle completamente nude, una delle quali è incinta. Come a dire: se già la Moda è una messinscena del vuoto spinto, neanche ritornare al corpo, e alla vita in corpo, sfugge alle regole svuotanti dello spettacolo. Appaiono Trussardi, Ferré, Gaultier, Lagerfeld, nella parte di se stessi. Non lo sapevano, che Robert Altman li inceneriva con lo sguardo.
9) E infine, la storia infinita. Sbottonate di Douglas Keeve (U-sa 1995) vorrebbe essere un finto documentario su un finto stilista dal finto talento che si barcamena nel Regno del Finto: la Moda, paragonata – quanto a dose di fiction – al sistema di Hollywood. Vedere all’infinito, come da un eterno buco della serratura, i bottoni sbottonati e i pettegolezzi di Cindy Crawford, Linda Evangelista, Kate Moss, Naomi Campbell, può dare all’inizio qualche brivido residuo di voyeurismo. Poi è la ripetizione, la ripetizione, la ripetizione… Repetita non iuvant. Lo sapevamo, che la noia ammazza ogni storia. Alla fine della storia, la Moda è una noia infinita.
10) N. B.: la Moda è prepotenza. In Bruiser di George Romero (Usa 2000), un redattore di una rivista di moda, stufo di essere ammaccato («brui-sed») dalle stoccate del suo ambiente, sceglie di ammaccare («to bruise»). Un proverbio di Moda? La miglior difesa è l’ammacco
di Gabriele Barrera