Brevi note sull’ipotesi di un nuovo cinema politico

Il recente successo di pubblico e di critica di un film come I cento passi di Marco Tullio Giordana e, in misura minore, di Placido Rizzotto di Pasquale Scimeca, lascia supporre che vi siano le premesse per una nuova stagione del cinema politico, genere trasversale dietro la cui etichetta coesistono forme differenti ed anche antagonistiche di spettacolo filmico, dal documentario al film cronachistico, dal cinema verità o al cosiddetto cinema politico-poetico ad un altro decisamente spettacolare; da Godard a Damiano Damianipassando attraverso autori a pieno titolo come Elio Petri e Francesco Rosi.
In una recentissima intervista apparsa su Repubblica (venerdì 6 luglio 2001) il regista napoletano dichiara di avere molto incoraggiato Giordana sostenendo la necessità che il cinema debba riprendere appunto la sua funzione di coscienza critica in una fase politica come quella attuale, governata dalla destra, che tenta senza riuscirvi, di darsi anche una identità culturale.
Rosi parla a ragione di “realismo critico”, quasi che per cogliere il significato di tale definizione si debba rileggere i testi di storia del cinema. Film, oggi da rivedere e rileggere come Le mani sulla città di Rosi (citato nel film di Giordana come una sorta di riferimento obbligato), Cadaveri eccellenti, Tre fratelli e naturalmente Salvatore Giuliano(che si conclude con la battuta diventata ormai storica “La verità non è sempre rivoluzionaria”), sono il risultato di una pratica etico-linguistico-narrativa che fa della critica della realtà sociale e politica la sua vera ispirazione. “Se tu fai un film sul lavoro può andare in tutto il mondo perché il problema del lavoro è uguale in tutto il mondo, e ce l’hanno appena dimostrato gli inglesi. Purché tu sia capace di immergere questi temi nella grande avventura umana.” Ecco un invito ai giovani cineasti a liberarsi dell’orgoglio presuntuoso del proprio spazio privato.
Il fatto che oggi nel cinema italiano non esista una figura “attiva” paragonabile a un Ken Loach (pur tuttavia non dimenticando affatto l’opera realizzata da un cineasta indipendente come Guido Chiesa), che dal lungometraggio di fiction al documentario sperimenta l’uomo contemporaneo e il suo essere sociale, non significa che non vi siano idee concrete e soprattutto una solida tradizione cinema politico (peraltro leggibile in chiave critica) tale da suggerire nuove ipotesi di lavoro sulla realtà.
E’ altresì necessario che in un paese come l’Italia si ricomponga tra i cineasti quel tessuto connettivo di idee, nuova premessa fondamentale per una coscienza critica attraverso cui far emergere la volontà di raccontare nuove, soprattutto altre storie, dove accanto alla verità della cronaca e della Storia si scopra una nuova dialettica fra destini individuali e destini collettivi.
di Redazione