I mostri e la realtà italiana. Editoriale

Nel cinema italiano e in particolare nel genere commedia, la chiave spesso utilizzata dagli autori per raccontare il paese è stata il grottesco. Nell’Italia post bellica, il grottesco ha offerto l’occasione per denunciare i limiti di un cambiamento democratico incompiuto e mostrare le resistenze ad un reale rinnovamento del paese, reduce dalla ventennale esperienza del regime fascista. Nella “felice” Italia del boom, il grottesco ha permesso agli autori di portare alla luce e mostrare anche gli aspetti della realtà più nascosti, le sacche di povertà, di ignoranza, di mostruosità – ho usato questo termine per rimandare a I mostri di Dino Risi, film simbolo di una stagione – prodotte dalla società del benessere. Anche alcuni recenti film italiani hanno scelto questa chiave per raccontare il presente; mi riferisco in particolare a Reality di Matteo Garrone ed E’ stato il figlio di Daniele Ciprì. Prescindendo dal giudizio critico sui due film, entrambi in possesso di indubbie qualità formali, oltre che simili per ciò che riguarda lo svolgimento della storia, è interessante notare come i protagonisti sia di Reality che di E’ stato il figlio siano persone volgari, ignoranti, brutte, sporche. Attraverso questi personaggi emerge l’immagine di una nazione senza speranza, priva di qualsiasi senso etico e morale. Ora non c’è dubbio che ogni autore è ovviamente libero di esprimere il proprio punto di vista, che in questo caso fotografa oggettivamente anche una buona parte della realtà odierna dell’Italia, ma oggi il rischio è che affreschi di questo tipo, contrariamente al passato, non aggiungano nulla a ciò che è già noto. Anzi la realtà finisce per risultare sempre più avanti: l’immagine delle feste fintoromane all’amatriciana con le maschere suine è molto più cinematografica e provocatoria di quanto raccontino i film di Garrone e Ciprì. Il grottesco, che in passato era utilizzato per raccontare le zone d’ombra del paese, è diventato il marchio identificativo dell’Italia. Di conseguenza, il cinema dovrebbe trovare dei nuovi strumenti e delle inedite modalità per raccontare un paese sempre più sfuggente ad ogni tradizionale classificazione. Con questo non si vuol sostenere che i registi italiani debbano impegnarsi a realizzare storie edificanti, semplicemente constatare che, se sulle prime pagine dei giornali oggi ci sono i furbetti, i bunga bunga e riti consimili, forse sarebbe più interessante che il cinema raccontasse l’altra Italia: quella dei giovani senza futuro; di chi, benché molto preparato, stenta a trovare una giusta collocazione; di chi si impegna e combatte per un futuro migliore.

Un eccesso di deformazione grottesca rischia di scivolare inevitabilmente in una sorta di sottile razzismo, mentre un cinema sulla realtà dovrebbe essere sempre problematico. Non è un caso che, personalmente, ritengo che i due film italiani più interessanti di questo avvio di stagione siano L’intervallo di Leonardo Di Costanzo e Alì ha agli occhi azzurri di Claudio Giovannesi, entrambi tutt’altro che buonisti, basati su storie forti, intense, emozionanti, dove i protagonisti, niente affatto eroi immacolati, non rinunciano ad esprimere una propria autentica umanità, quell’umanità che il grottesco tende a cancellare.

Anche alla luce di ciò che è emerso dalle nostre due maggiori kermesse cinematografiche, Mostra di Venezia e Festival di Roma, che ovviamente hanno ospitato molte produzioni nazionali, l’immagine del cinema italiano appare un  po’ offuscata. C’è bisogno di un nuovo scatto di originalità e di una più attenta riflessione su contenuti e linguaggi da utilizzare, per rimettere in moto quel processo di crescita artistica e di interesse di pubblico che si è interrotto nell’ultimo anno e mezzo. Per altro, a proposito di rapporti con gli spettatori, ci sono da affrontare rapidamente due snodi decisivi: il prossimo, inevitabile passaggio al digitale e i rapporti con la rete, ovvero con le nuove modalità di consumo. Sul primo punto, dopo l’annuncio delle società di distribuzione di abolire definitivamente dal 1° gennaio 2014 la pellicola, per passare alla distribuzione di film in formato digitale, le sale cinematografiche dovranno dotarsi di questo sistema, pena la sparizione. Ma oggi solo metà dell’esercizio cinematografico possiede impianti digitalizzati e, in mancanza di concreti aiuti ad affrontare costi rilevanti, dai 50mila ai 70mila euro a schermo, il rischio è che quella che doveva essere una grande opportunità di rilancio si trasformi in una sorta di pietra tombale per centinaia di piccole sale, con conseguente impoverimento del tessuto cinematografico culturale. Quanto alla rete è una realtà con cui il cinema deve fare i conti, perché, anche se non c’è dubbio che il modo migliore di vedere un film resta la sala buia e il grande schermo, il consumo in altre modalità è destinato a crescere. Da qui, ribadendo l’importanza e la centralità della sala, la necessità di individuare forme distributive diverse e redditizie. I ritardi accumulati in questo settore rischiano di produrre effetti devastanti, come già avvenuto con l’industria discografica.


di Franco Montini
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