Dubbi fuori luogo (comune)

Frame tratto da The Hateful Eight - regia di Quentin Tarantino (2015)

La crisi del cinema ha quasi cent’anni, è cominciata più o meno da quando Méliès finì a fare il giocattolaio a Montparnasse. Solo che oggi è peggio. Crisi economica, d’identità, di pubblico, di idee. La programmazione delle sale sembra un palinsesto televisivo: oggi la diretta dalla Scala, domani la visita virtuale al museo, poi l’evento con i nuovi episodi di Masha e Orso, il cineforum, il documentario solo-oggi-e-domani (da dopodomani è in dvd) e finalmente la prima visione. Che nei multiplex significa 5 o 6 copie dell’ultimo checcozalone (oppure 5 o 6 copie dell’ultimo sequel/prequel/reboot di supereroi) più una commediola scipita e un thriller/action/horror qualsiasi.

In questo momento di incertezze, da dove ripartire? Ci sarà pure qualche verità incontrovertibile, qualche principio che dia la linea, qualche buon proposito che inietti un po’ di fiducia.

Allora, per esempio: “Non diffidare della tecnologia, il digitale è il futuro”. Meglio, è già il presente. Non ha senso rimpiangere il 35 millimetri, le righe sulla pellicola, i fuoriquadro in proiezione, i costi altissimi delle riprese. Va bene, si perde quella patina un po’ nebulosa e tanto romantica, ma si guadagnano una brillantezza e un contrasto che ti artigliano e ti tirano dentro l’inquadratura. Eppure ci sono registi che rifiutano di staccarsi dalla pellicola. Le nostre sale sostituivano i proiettori, i laboratori di sviluppo abbassavano la saracinesca e intanto Ivano De Matteo s’industriava a recuperare in Italia e all’estero scampoli di celluloide per girarci I nostri ragazzi. Un pazzo. Ma allora come definire Paul Thomas Anderson e Quentin Tarantino che hanno voluto The Master e The Hateful Eight in 70 millimetri? Snob, come quelli che comprano i 33 giri in vinile?

E poi il digitale si porta dietro il 3D, una delle grandi rivoluzioni cinematografiche degli ultimi anni. Certo, non sempre (anzi, quasi mai) il procedimento è stato usato in modo pertinente e necessario, e intanto il boom è passato, l’entusiasmo si è affievolito, la bolla è scoppiata. All’epoca di Hugo Cabret, Scorsese affermò che da allora avrebbe girato solo in 3D, dopodiché ha realizzato The Wolf of Wall Street in 2D e in gran parte con la solita vecchia pellicola. Chi soffre di mal di testa tira un sospiro di sollievo, altri temono che si stia perdendo un’opportunità creativa insostituibile. Luigi (Abiusi) scrive che difendere il 3D significa “difendere la libertà dell’immaginazione più smodata”. Sacrosanto, la libertà è il bene più prezioso. Però gli esercenti che chiedono al pubblico pagante un bel sovrapprezzo per la tecnologia tridimensionale e l’uso degli occhiali mi sa poco di progresso. E Avatar 2 e 3, dicolaverità, non vedo l’ora di perdermeli.

Lasciamo stare la tecnologia, senti questa: “Il film è morto, il vero cinema sono i serial televisivi”. Perché dopo decenni di “nuove ondate” e di acritica esaltazione dell’autorialità nessuno sa più scrivere una sceneggiatura indimenticabile, e in fatto di scrittura oggi i telefilm sono imbattibili. In cabina di regia però non si sa più chi c’è: il pilot affidato al grande autore, poi regia di questo, poi regia di quello, poi di questo & quello insieme. No, non mi basta, in un’opera voglio tutto: scrittura e regia.

Siamo un po’ più radicali, osiamo: “Il cinema migliore oggi lo fanno i documentaristi”. Sguardo sulla realtà, manipolazione del vero, riflessione sull’oggi, drammaturgia che scaturisce dalle cose, senza preconcetti e sovrastrutture. Prima di Berlino 2016, Gianfranco Rosi ci ha vinto anche il Leone d’Oro con Sacro Gra: originale, ammaliante, insinuante, non è quello che ti aspetti e non somiglia a nulla di già visto. In verità ricordo anche una sala semivuota, a Roma, con un pubblico mesto e penitenziale che alla fine si chiedeva se non avesse buttato due ore: saranno più tornati a vedere un documentario al cinema? Molti tra coloro che sono disposti a pagare un biglietto, senz’altro, hanno fame di verità, voglia di autentico, ansia di concretezza. Beatrice (Fiorentino) auspica giustamente che il nostro cinema riparta “dall’osservazione del reale”, “come fecero i maestri del neorealismo settanta anni fa”. Ma sarà mai possibile raggiungere gli stessi risultati, l’identica passione? Rossellini De Sica Visconti reagivano a vent’anni di commediole ungheresi avendo davanti l’ottimismo di chi ricomincia, il sol dell’avvenire, il denaro del Piano Marshall, un orizzonte roseo che nutriva le speranze che nutrivano le ideologie che finivano per nutrire anche il cinema. Cadute le ideologie, frustrate le speranze, avviluppati in una crisi economica senza fine (con l’eterno beffardo annuncio degli “evidenti segnali di ripresa”) l’alternativa odierna in Italia è fra dubbio e pessimismo. Non stupisce che il risultato sia un cinema asfittico, rinunciatario, reazionario, rinchiuso su se stesso, nei casi migliori cupo.

Almeno questo dovrebbe essere insindacabile: “Non c’è nulla di peggio al cinema della retorica”. Bando al sentimentalismo e al moralismo, viva il rigore e l’asciuttezza, celebriamo l’equilibrio… A patto, certo, di non sostituirlo con una noiosa stitica controretorica indie. Che film davvero magnifico sarebbe stato Il caso Spotlight se avesse accettato di compromettersi con qualche sottolineatura, di puntare su una drammatizzazione un po’ più appassionata.

Per fortuna Giona (Nazzaro), che ci guida autorevolmente nell’avventura della nuova Settimana della Critica, non la vede così nera. «Bisogna gioire delle sfide che offre il cinema contemporaneo», ha detto, «evitare l’abbraccio rassicurante del già noto. Evidentemente questo è un lavoro che va fatto con il pubblico e non contro il pubblico». Mi torna in mente quando, ere geologiche indietro, Spielberg spiegò che con I predatori dell’arca perduta intendeva fare un film che la gente avrebbe voluto rivedere subito da capo: provai un’immensa gratitudine, sentii che quel regista aveva pensato a me, che mi aveva voluto bene, che il cinema era davvero una cosa grande, da condividere col maggior numero di persone (e I predatori mi divertono ancora adesso).

Poi penso al pubblico odierno. Ai pensionati che vanno allo spettacolo delle 16 chiacchierando di case al mare e fratture al femore; e ai giovani che non ci vanno, assuefatti a far saltellare il mouse sulla strisciolina grigia del film scaricato (quelli in mezzo, i 40-50enni, non hanno tempo per i film, sono impegnati a cercare lavoro o a mantenerlo).

Allora, Giona, Beatrice, Luigi, Massimo (Tria): a che serve fare un festival, preparare una nuova Settimana della Critica, selezionare film da proporre all’attenzione di un pubblico che di attenzione forse non ne ha più? Mi sembra un obiettivo assurdo, pure un po’ presuntuoso, una di quelle cose difficili da spiegare ai figli piccoli. Però una cosa, almeno una, la so: che vale la pena di provarci, almeno per restituire al cinema una piccolissima parte di ciò che ci ha fino ad oggi regalato.


di Alberto Anile - Settimana Internazionale della Critica
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