Fuocoammare
Immersione totale. O forse lo si dovrebbe ormai chiamare «metodo Rosi». Perché è così che Gianfranco Rosi ha sempre lavorato sin dagli inizi della carriera nel testardo tentativo di raccontare la realtà che lo circonda documentandone le storture con occhio vigile e asettico, lasciando che sia lo spettatore a prendere posizione senza mai sentirsi influenzato dalle prese di posizione più o meno autorali di chi tiene in mano la macchina da presa e poi monta ore e ore di girato.
Un metodo questo che Rosi ha puntualmente applicato anche in Fuocoammare, sua ultima fatica documentaristica dedicata all’emergenza umanitaria che gli abitanti di Lampedusa vivono da oltre vent’anni come se fosse per loro l’ordinaria quotidianità mentre agli occhi del resto del mondo appare giorno dopo giorno la resistenza strenua di un manipolo di eroi abbandonati dalle istituzioni e dall’Europa a combattere con l’emorragia dei migranti che convergono sull’ultimo lembo del vecchio continente in cerca di un lasciapassare verso la dignità perduta.
Un metodo che adotta appunto la tecnica dell’immersione totale nelle cose coniugando la sofisticazione documentaristica con la capacità di mimetizzarsi tra gli «attori» delle storie raccontate senza far mai percepire la propria presenza. E soprattutto senza mai accettare le regole del documentario «mordi-e-fuggi» da pseudo inchiesta televisiva nata per il format della TV. Un approccio questo che ha però ormai dimostrato non solo di essere il marchio di fabbrica di un autore degno di questo nome, ma di ripagare con gli interessi per tutti i sacrifici produttivi e realizzativi che esso comporta.
Al punto che, dopo aver vinto del tutto a sorpresa il Leone d’oro a Venezia 2013 con Sacro GRA, Rosi si è regalato un record mai toccato ad alcun suo collega nel campo del cinema documentaristico: unico titolo italiano in concorso all’ultima edizione della kermesse berlinese e pur essendo «solo» un documentario, Fuocammare ha infatti vinto l’Orso d’Oro. Così che Rosi è adesso il solo autore vivente ad aver vinto a distanza di due soli anni i premi come miglior film in due delle principali vetrine del cinema europeo, sbaragliando però la concorrenza di importanti e ben più facilmente fruibili titoli di finzione.
E dire che Fuocoammare, come anche per gli altri quattro documentari finora girati da Rosi, non aveva certo avuto una genesi tanto facile. Giunto per la prima volta a Lampedusa nell’autunno del 2014 col progetto di girarvi un semplice cortometraggio, il regista nato all’Asmara e poi formatosi cinematograficamente a New York si era sentito come respinto dalla realtà estrema dell’isola, sempre sospesa tra la voglia di una normalità negata e l’emergenza degli sbarchi convertita in ordinarietà dolorosa del quotidiano abituale.
Ma dopo essere stato al centro sanitario per curare una bronchite, lì Rosi conobbe Franco Bartolo, il solo medico operativo sull’isola e da quasi 30 anni testimone accorato dei destini di un mondo alla fine del mondo ma soprattutto della lunga scia di morte a credito che il sogno di una vita migliore non ha mai smesso di lasciarsi alle spalle in tre decenni di derive umane trascinate dal mare e da mezza Africa in fuga da se stessa sulle coste di Lampedusa.
E se Fuocoammare (titolo che trae spunto da una celebre canzone popolare siciliana che si sente a un certo punto nel corso del film) è diventato realtà, Rosi lo deve proprio al Dottor Bartolo, destinato a diventare una delle star dolenti e involontarie del film stesso. Avendo visto e apprezzato Sacro GRA, fu proprio lui a consegnarli una chiavetta USB piena di documenti fotografici e video relativi alle sue penose esperienze di medico in occasione di decine e decine di salvataggi e tragedie sul mare.
Colpito dall’agghiacciante materiale contenuto in quella chiavetta, Rosi decise così di tornare a Lampedusa dove ha poi vissuto per diciotto mesi documentando giorno dopo giorno con la propria cinepresa quella presunta normalità all’insegna dell’emergenza che è la vita dell’esigua comunità residente sull’isola. Un piccolo manipolo di eroi di resistenza umana chiamati ad accettare l’idea di dover vivere in un lembo estremo di mondo convertito dalle leggi della Storia nel portale di accesso a uno straccio di speranza in un domani possibile.
Più complesso nella struttura di quanto non fossero i precedenti lavori di Rosi, Fuocoammare è costituito dal continuo sovrapporsi di diversi assi narrativi: da una parte c’è la cronaca quasi veristica della vita del dodicenne Samuele (appassionato di caccia agli uccelli con una fionda fai date) e di alcuni membri della sua famiglia e della comunità isolana, e dall’altra la descrizione fredda e oggettiva di uno dei tanti sbarchi di cui si seguono le varie fasi dall’avvistamento in mare aperto a notte fonda fino alla schedatura dei sopravvissuti e al loro collocamento nel ribollente centro di prima accoglienza attivo da anni sull’isola.
Ed è proprio l’alternarsi tra l’ordinaria quotidianità dell’esistenza di Samuele e degli altri membri della comunità isolana e l’insorgere quasi quotidiano dell’emergenza dovuta agli arrivi via mare degli «altri» a rappresentare l’elemento di maggiore impatto emotivo per lo spettatore: anestetizzati come ormai siamo a forza di veder scorrere nei TG immagini sempre uguali di barconi carichi di migranti allo stremo corredate dalla contabilità obitoriale di quanti non ce l’hanno fatta, la documentazione programmaticamente oggettiva che Rosi offre di questa tragedia umanitaria colpisce come un pugno nello stomaco proprio perché illustra senza mai commentare. Lasciando che a farlo siano la cronaca asettica di ogni morte annunciata e le testimonianze di quanti sull’isola hanno ormai appreso a convivere col dolore di troppe vite spezzate dall’inconsistenza di un sogno.
Pur potendo dare l’impressione di volerlo fare in maniera programmatica, Rosi (che ha dedicato alla comunità di Lampedusa e alla sua terra l’inatteso Leone d’Oro vinto a Berlino) non sceglie mai la strada della denuncia retorica come spesso accade in tanti documentari visti in TV sullo stesso tema: il suo è un cinema di identificazione radicale col soggetto trattato all’insegna di quello che dovrebbe essere lo spirito più autentico del genere di appartenenza.
E cioè la determinazione a risvegliare le coscienze di chi guarda senza mai far credere di voler scatenare la lacrima facile col ricorso all’immagine di forte impatto visivo, limitandosi invece a mostrare con l’occhio della telecamera ciò che tutti guardano ma fingono di non vedere. Uno spirito questo magnificamente compendiato dal lungo monologo di potenza scespiriana che il Dottor Bartolo pronuncia di fronte all’immagine di uno dei tanti barconi della disperazione su cui è stato chiamato negli anni a esercitare la propria professione di medico tuttofare.
Senza un copione né alcuna imbeccata del regista che lo sta inquadrando, questo eroe del silenzio dice che in molti potrebbero pensare che anni di assuefazione al dolore e alla morte (specie di fronte a vite falciate nei loro anni più innocenti) lo abbiano abituato vaccinandogli il cuore e sterilizzandogli la mente. Fisso sull’immagine del barcone stracarico di vite alla deriva e col singhiozzo che gli strozza la voce in gola, come un personaggio sfuggito a una tragedia sofoclea il Dottor Bartolo confessa che a tutto ci si può abituare «ma non a quello».
Trama
Dopo esservisi trasferito e averci trascorso diciotto mesi, Gianfranco Rosi racconta la normalità anomala di Lampedusa, ultimo lembo d’Europa dove da oltre vent’anni si incrociano i destini di quanti vi risiedono e di tutti i migranti che vi approdano nella speranza di poter raggiungere il sogno di una vita migliore lontano da guerre, violenza e diritti negati.
di Redazione