La svolta si chiama qualità

Pubblichiamo l'editoriale di Franco Montini relativo al ruolo e al senso della produzione cinematografica italiana contemporanea.

Con Pinocchio, Ozpetek e Zalone è facilmente prevedibile che alla fine delle festività natalizie il risultato al box office del cinema italiano farà segnare numeri importanti, rilanciando in alto la quota di mercato della produzione nazionale. Ma sarebbe un errore abbandonarsi ad eccessivi ottimismi, come solitamente accade all’indomani di ogni momentaneo successo. Una cinematografia prestigiosa, come quella italiana, non può dipendere esclusivamente dall’esito di un ristretto e sparuto numero titoli. Il risultato complessivo del 2019, alla vigilia dell’indigestione natalizia, è quanto mai preoccupante. In un anno, complessivamente in crescita rispetto al 2018, dal 1° gennaio a metà dicembre 2019 la quota di mercato del nostro cinema era attestata ad un modestissimo 18%, mentre il numero dei film italiani complessivamente distribuiti in sala rappresentava il 36% del totale. Su 180 film italiani usciti nei cinema, solo poco più di una ventina hanno superato il milione di euro, mentre circa 150 titoli hanno rastrellato meno di 400 mila euro e in alcuni casi l’incasso si è espresso in decine di migliaia di euro.
I numeri dimostrano che qualcosa non funziona: il primo dato evidente è che il mercato non è in grado di assorbire la quantità di prodotto proposto al pubblico. Le politiche ministeriali volte a sostegno della produzione, insieme all’avvento del digitale e delle nuove tecnologie, hanno favorito una proliferazione di film, ma, nello stesso periodo, il numero degli schermi non è cresciuto: al contrario si è contratto. In questo modo la visibilità di molti titoli, che appaiono e scompaiono dalla sala prima che perfino gli spettatori più attenti possano raggiungerli, è più teorica che reale. A complicare le cose è una dissennata politica distributiva che, contrariamente a ciò che sta accadendo per il prodotto internazionale, tende a concentrare le uscite in un periodo troppo esiguo, favorendo una concorrenza eccessiva e un’inevitabile cannibalizzazione fra i film italiani. Quest’anno, grazie all’iniziativa Moviement, un discreto numero di titoli appetibili è stato distribuito con buoni risultati nel periodo estivo, ma, nonostante le politiche di sostegno previste dalla legge Franceschini, il cinema italiano si è distinto per la propria assenza.

In ogni caso, più che lamentare l’uscita in sala di troppi film dalle caratteristiche palesemente insufficienti per un confronto sul grande schermo, perché questi titoli alla fine spariscono così velocemente da non provocare danni collaterali, bisognerebbe poter garantire maggiore visibilità ai prodotti realmente meritevoli. Impresa davvero titanica perché gli spazi per le piccole e piccolissime distribuzioni, che paradossalmente continuano a crescere e che propongono spesso opere di grande valore artistico e culturale, sono sempre più limitati. Molti di questi film sono condannati all’emarginazione, a volte all’invisibilità, non solo, come accadeva una volta, nel cosiddetto mercato di profondità, ma anche nelle principali piazze, a cominciare proprio da Roma. Una serie di regole non scritte, ma molto efficaci, fatte di dinieghi; imposizioni; ricatti; diktat degli agenti regionali, troppo spesso anche di fatto programmatori; esclusive ormai senza senso, dati i costi contenutissimi delle copie digitali, impediscono a molti film di poter confrontarsi con il proprio pubblico di riferimento e agli spettatori di affinare il proprio gusto, grazie alla conoscenza di nuovi autori e nuove realtà cinematografiche.
Tutte queste considerazioni relative agli oggettivi problemi del mercato, non devono tuttavia far dimenticare le carenze artistiche e culturali di gran parte della produzione italiana. Accanto a pochi film di alta, e in qualche caso di altissima qualità, il livello medio della produzione nazionale, se confrontato con le cinematografie straniere, è assai deprimente, in particolare nel settore della scrittura. Le sceneggiature dei prodotti di genere sono il più delle volte di una povertà sconcertante. Individuato un tema, uno spunto, un’idea, anche suggestiva ed originale, accade che la storia non venga sviluppata ed approfondita come sarebbe necessario, limitandosi ad un’inutile ripetizione di situazioni. Per certi versi si ha quasi l’impressione che in Italia fra cinema e televisione si siano invertiti i rapporti. Fino a qualche anno fa erano le reti a realizzare prodotti di serie, privi di inventiva; oggi sembrerebbe che questo accada più spesso nel cinema. Mentre le serie tv nazionali sono migliorate, i film – il riferimento, sia chiaro, è sempre alla maggior parte della produzione cinematografica, non bisogna generalizzare – sembrano accontentarsi di esistere, forse perché, quando un’operazione si chiude, indipendentemente dal successivo esito, produttori e autori si sono comunque già garantiti un utile.
Le due categorie dovrebbero prendere atto della necessità di alzare l’asticella, anche perché il prodotto medio sul grande schermo non sembra avere più spazio. Stanno cambiando le modalità sociali e antropologiche nel consumo di immagini e il pubblico sembra avere fatto una chiara scelta: al cinema si va per vedere i blockbuster o i film evento, categoria che può comprendere anche prodotti d’autore, ma di altissima qualità. Per il resto ci sono le piattaforme, i CD, le reti televisive generaliste o meno. In questo senso non ha più senso pensare che tutti i film debbano necessariamente uscire in sala o che approdare direttamente su altre modalità di consumo sia una ammissione di scarsa qualità.

Insomma per il cinema italiano s’impone una svolta. C’è un’improrogabile necessità di tornare a rischiare con proposte originali, inconsuete, coraggiose. Rincorrere le mode e i gusti correnti condanna alla sconfitta perché si è sempre inevitabilmente in ritardo. Come ricordava un autore, il regista del film italiano che ha avuto il maggior numero di remake in giro per il mondo – lui è Paolo Genovese, il film Perfetti sconosciuti -, non bisogna fare ciò che piace al pubblico, ma quello che il pubblico non sa ancora che gli piacerà.


di Franco Montini
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