Lo spirito più elevato. La propaganda bellica di Akira Kurosawa
Lo spirito più elevato è il secondo lungometraggio diretto da Akira Kurosawa, e si può partire da qui per cercare di ragionare sul concetto di propaganda bellica nel cinema degli esordi del regista giapponese.

Lo spirito più elevato (Ichiban utsukushiku) è il secondo film diretto da Akira Kurosawa. Esce nelle sale giapponesi nel 1944, con la guerra in corso già da tre anni e il paese che paventava, con la grande espansione nel Pacifico dei primi anni dopo Pearl Harbour, la possibilità di un’invasione da parte delle truppe statunitensi. Il regista, fin dal 1936 attivo nell’industria cinematografica nipponica come autore di soggetti e sceneggiature, montatore, scenografo e persino cartellonista pubblicitario, aveva esordito alla regia nel 1943 con Sugata Sanshirō, anch’esso, indirettamente, un film patriottico, visto che raccontava la vita e la carriera del massimo campione di judo dell’epoca Mejij (1868-1912). Il film ebbe un grande successo e fu notato dai potenti funzionari della Marina Imperiale i quali pensarono di affidare al neo regista la direzione di una nuova pellicola incentrata sulle imprese dell’aviazione nipponica. Ma la guerra, come si è scritto, andava sempre peggio e gli Zero, i mitici aerei da caccia, non potevano essere spostati dai campi di battaglia sul Pacifico ad un set cinematografico. Così Kurosawa propose ai committenti un soggetto di propaganda civile che avrebbe dovuto raccontare il lavoro e la vita quotidiana di un gruppo di giovani operaie occupate in una fabbrica di ottiche di precisione destinate alle diverse armi.
A questo punto è quasi obbligatorio sottolineare che il termine “cinema di propaganda” si presta ad una gamma di interpretazioni piuttosto vasta e non prive di contraddizioni, anche quando i film sono specificamente legati all’esaltazione di un regime dittatoriale. Ad esempio, i filmati dell’Istituto Luce dedicati alle realizzazioni “civili” (bonifiche, città di fondazione), sono oggi delle interessantissime testimonianze visive del cambiamento italiano organizzato e diretto dal regime fascista. Ma quando si entra nel cinema di finzione l’analisi storica, e non solo quella filmica, si complica. Non a caso, molto spesso, la scelta dei regimi dittatoriali è stata quella di privilegiare o di assecondare un uso prevalentemente “disimpegnato” dello spettacolo cinematografico. Eccezioni rilevantissime furono le pellicole dei regimi comunisti, prima e dopo la seconda guerra mondiale, non caso molto studiate anche sul piano dello “scarto della norma”, rispetto alla volontà dichiarata dei governi – soprattutto quello sovietico-stalinista – di attenersi alle regole del “realismo socialista”. Di fatto, proprio nell’Unione sovietica, una palese contraddizione è leggibile nell’intero periodo brezneviano che non fu certo caratterizzato da aperture liberali ma che vide l’emergere di grandi figure autoriali, a Mosca come nelle repubbliche che avevano un loro centro di produzione filmica più o meno indipendente, conosciute anche e soprattutto fuori dai confini nazionali. Questa precisazione non vuole certo cancellare le terribili censure e le vere e proprie persecuzioni nei confronti di cineasti assolutamente “incompatibili” con il regime, come Sergej Paradžanov o lo stesso Tarkovskij.
Un problema diverso si può leggere in trasparenza nel cinema cinese dopo il 1949 e prima del rigida cesura della rivoluzione culturale che cancellò interamente la finzione filmica, se non utilizzando i canovacci delle opere teatrali modello, ad esempio Il distaccamento rosso femminile o La fanciulla dai cappelli bianchi. Decennio dopo decennio, nei film che, fino alla fine degli anni Settanta non si videro fuori dai confini cinesi, si poteva leggere una sorta di riflesso delle parole d’ordine politiche o delle urgenze economiche: “Il grande balzo in avanti”, “I cento fiori”, il rapporto con la Cina del passato. Molto meno dati si hanno a proposito del Giappone, soprattutto durante la guerra, anche se è facile ipotizzare che ci fosse una stretta censura sulle tematiche. Ma pure, nelle commissioni di valutazione un ruolo importante lo ebbe il già famoso Yasujirō Ozu, a cui si dovette una sorta di “promozione” del giovane Kurosawa dopo il suo esordio con Sugata Sanshirō.
In ogni caso la propaganda, magari indiretta, filtrava – come notarono i funzionari del Ministero della Marina – anche nelle opere “civili” o direttamente storiche, se non mitologiche. Ad esempio I Quarantasette Ronin fedeli di Mizoguchi, datato 1941, e basato su un’epica che potrebbe essere messa a confronto con la mitologia europea medievale: il ciclo bretone di Re Artù e quello carolingio di Orlando. Quell’epica, già presente in tante opere teatrali kabuki e in tanti film precedenti, si prestava facilmente, per la sua stessa carica eroica e sacrificale, ad una sorta di propaganda nazionale quasi naturale. I Ronin erano i predecessori dei mitici piloti/kamikaze degli Zero che attaccavano le portaerei statunitensi.
Tornando al film di Kurosawa, dopo una breve didascalia propagandistica – “Continuiamo a combattere” – che sottolinea una sorta di stato di emergenza, Lo spirito più elevato si apre in “medias res” con un appello radiofonico del direttore di una fabbrica di ottiche di precisione che chiede alle maestranze di aumentare la produzione in maniera significativa. Al direttore si sostituisce poi un funzionario della stessa azienda, che indica gli obiettivi della crescita: gli operai dovranno raddoppiare il loro impegno lavorativo, mentre per le lavoratrici l’aumento produttivo arriverà solo al cinquanta per cento. In un montaggio parallelo, le parole dei responsabili dell’azienda si sovrappongono alle inquadrature dei cortili della fabbrica nella quale gli operai – tra i quali un gruppo numeroso di adolescenti – sono schierati come fossero ad una parata militare. In continuità con la sequenza descrittiva, l’esplorazione dello spazio si ferma su un gruppo di ragazze che si lamentano della decisione presa dai responsabili. Intervengono due militari che riportano all’ordine il gruppo ma la responsabile del gruppo femminile, Watanabe, rimane offesa per essere stata scavalcata. Di ciò si parla durante la pausa della mensa e le operaie inquadrate sembrano coscienti di questo sgarbo. Tutta la breve sequenza di presentazione ambientale è scandita da una frammentazione estrema del racconto nella quale ogni singola inquadratura è una sorta di brevissimo paragrafo “narrativo”. Il film è già entrato, come si è scritto, in “medias res”, quando Watanabe, al mattino, guida una vera e propria marcia militare con tanto di inno patriottico e bandiera verso la fabbrica.
Questa prima parte sembra in sintonia con la forma didascalica del documentario “sociale” inglese degli anni Trenta, ovvero Grierson, Rotha e sopratutto Jennings, attivo durante la seconda guerra mondiale nel filmare la resistenza dei londinesi ai bombardamenti tedeschi.
Però uno studioso come Donald Richie (The Films of Akira Kurosawa) sottolinea che quei film non erano ancora conosciuti in Giappone, mentre circolavano, almeno nell’industria cinematografica, i “Kunstfilm” tedeschi e i documentari sovietici. Secondo lo studioso, Kurosawa mostra di essere stato influenzato da questi modelli, soprattutto per il montaggio di brevissime sequenze e di primi piani. La vicenda si concentra infatti esclusivamente sulle operaie, per la maggior parte volontarie e provenienti dalla provincia, anche lontana. Kurosawa le segue nei dettagli del lavoro, quindi nel collegio in cui sono ospitate, gestito da una sorta di maestra/educatrice. Ancora una forma documentaria, o perlomeno realista, domina la vita quotidiana delle operaie fuori dalla fabbrica. Spiccano infatti come autentici frammenti antropologici sia il giardino del collegio, costruito con zolle di terra portate da ognuna di loro o spedito dai familiari in una scatola, sia il rito quotidiano dell’omaggio ai propri genitori, effigiati attraverso grandi fotografie appese alle pareti e didascalie che ricordano con nostalgia i paesi dai quali provengono le ragazze. Le loro famiglie, residenti in campagna o in piccoli villaggi, le hanno, per così dire, “prestate” alla famiglia/stato ma, appunto la militarizzazione del mondo femminile, storicamente separato dalla società dei maschi, non sembra volere o poter ribaltare la tradizione ma semplicemente adattarla alle circostanze storiche.
La lezione di musica all’interno dello stesso collegio è un’altra forma di militarizzazione che si avvale di nuovo, come nella parata militare, di una sorta di formazione collettiva gioiosa. E del resto, in una sequenza successiva, più lunga e ambientata di nuovo in città, le ragazze sfilano in parata verso la fabbrica affiancando una altra sfilata dal ritmo militare costituita di soli maschi, anch’essi civili che si recano in fabbrica. Infine, il lavoro vero e proprio è segnato da continue didascalie che si rivolgono al pubblico associando l’impegno civile alle imprese militari dei celebri ammiragli impegnati nel Pacifico. Nonostante questa iniziale forma para documentaria – vero e proprio prologo al racconto – la sceneggiatura, interamente scritta da Kurosawa, comincia subito dopo a percorrere una strada meno rigida. Il regista, infatti, sembra voler umanizzare la generazione che si trovò, fuori dai campi di battaglia, a dover sostenere lo sforzo bellico. L’idea stessa di utilizzare come scenario unico la fabbrica e il dormitorio/collegio nel quale abitano le ragazze, finisce per entrare in contrasto con il dominio di una tradizione che aveva il suo centro nella famiglia e nel dominio patriarcale. Insomma, anche Lo spirito più elevato, recitato interamente da attrici professioniste, è, a suo modo, un romanzo di formazione che racconta una non prevista emancipazione del mondo femminile che, come accadde nella maggior parte dei paesi coinvolti nelle guerre novecentesche, divenne anche un dato sociologico e storico importantissimo.
Cosciente di questa mutazione sociologica dovuta alla guerra, Kurosawa concentra progressivamente la narrazione, dentro e fuori la fabbrica, sui dettagli, ma soprattutto sui primi piani delle operaie, creando una sorta di confidenza che permette, nella seconda parte, di drammatizzare la vicenda, isolando delle vere protagoniste. Oltre a Watanabe, un’altra importante personalizzazione riguarda una ragazza alla quale il medico riscontra una fragilità ossea. Immediatamente le compagne le alleviano ogni sforzo fisico, soprattutto nel trasportare pesi. Ma soprattutto il distacco dalla forma documentaria è evidentissimo nella lunga sequenza dedicata alla ragazza malata che non vuole tornare a casa, nonostante siano già stati avvertiti i familiari.
Nella sequenza che precede la partenza dell’operaia, Il padre di lei, figura austera di contadino, domina la scena più importante con la sua immobilità che contrasta con il contesto melodrammatico e affettivo provocato dal vivere in una comunità ma che, contraddittoriamente, suscita comunque una sorta di nostalgia del paese e della famiglia anche nelle altre operaie. Due mondi a confronto che torneranno in primo piano nel pre finale, quando la maestra va a riprendersi la sua collegiale/operaia nel paesino innevato tra le montagne, lontano dalla metropoli e dalla guerra: una sequenza di grande suggestione, quasi contrapposta, con il suo bellissimo paesaggio, alla claustrofobia della fabbrica e del dormitorio. Il vero Giappone, sembra suggerire Kurosawa, esiste ancora nonostante la guerra.
Il secondo episodio che ribadisce l’importanza di una drammaturgia anti documentaria riguarda la ragazza che ha un incidente alle gambe e deve anch’essa ritornare al proprio villaggio. Il suo ritorno sarà segnato dall’entusiasmo, suo e delle sue compagne. Il terzo è dedicato all’operaia che nasconde la sua febbre serale, sintomo di una malattia avanzata, per non dover abbandonare il lavoro.
Infine, la sequenza nella quale Watanabe, la responsabile della produzione, passa l’intera notte a cercare una lente che si è dimenticata di controllare, rappresenta l’acme del racconto, a cui fa seguito la sua decisione di non abbandonare il lavoro neanche quando le viene comunicato che la madre è morta.
Gli episodi citati, che potrebbero far pensare ad una sottile “melodrammatizzazione” del racconto, finiscono comunque per catalizzare il film entro una dimensione collettiva – quella della raggiunta produzione decisa dai dirigenti della fabbrica – dentro i cui confini, però, sono stati ormai tratteggiati i caratteri individuali, i conflitti e soprattutto una sorta di presa di coscienza, da parte delle ragazze, del loro ruolo di “cittadine” e non di semplici membri delle famiglie patriarcali sparse per un paese ancora prevalentemente rurale, nonostante tutta la modernità tecnologica profusa nello sforzo bellico.
Vanno sottolineati due opposti commenti al film, ed entrambi provenienti dalla critica occidentale. Richie – già citato – che pure lo apprezza per la costruzione narrativa e per una drammaturgia tradizionale ma solidissima, lo accosta paradossalmente, per la sua carica propagandistica, a Il trionfo della volontà (Der Triumph des Willens) della Riefenstahl. Si potrebbe discutere a lungo su questo parallelismo incongruo, visto che nel film tedesco è totalmente assente proprio l’esaltazione di una individualità e di una coscienza sociale, umanitaria e solidale, che rappresenta la vera poetica de Lo spirito più elevato.
Più condivisibile è invece il parere di un altro studioso del regista giapponese, Aldo Tassone, che accomuna Lo spirito più elevato a La nave bianca di Roberto Rossellini, film bellico del 1941, che, progressivamente, a partire dalle lettere dei marinai alle famiglie e alle fidanzate, diventa una sorta di esplorazione “umanitaria” delle vittime della guerra ricoverate in una nave ospedale. Anche in questa pellicola, infatti, la propaganda si piega alle necessità affettive del melodramma e, nello stesso tempo, perde la sua rigidità bellicista, che, ad esempio, nei film di propaganda nazista rimane sempre inalterata.
Insomma, tornando al film giapponese, si può affermare che le circostanze storiche siano state utilizzate dal regista come occasione di ulteriore affinamento delle sue tecniche di osservazione/ricostruzione realista del mondo contemporaneo, che finiranno per essere il contraltare della sua più famosa epica cavalleresca.
In ogni caso, sganciato dal contesto specifico, Lo spirito più elevato (il titolo si riferisce proprio al personaggio di Watanabe) figurerebbe bene in qualsiasi cinematografica come esempio “umanista” di una propaganda giocata sui toni minimalisti e intimi. E soprattutto, quei personaggi femminili anticipano uno dei ritratti più belli dell’intera filmografia del regista: Yuke – interpretata dalla grande Setsuko Hara, diva di Ozu e interprete di un altro capolavoro del regista, L’idiota (Hakuchi, 1951) – la studentessa che, innamorata di un collega, poi morto in carcere, dove è stato tradotto perché accusato di spionaggio, alla fine della guerra si trasferisce nel villaggio del compagno per aiutare i genitori, isolati da tutti i compaesani semplicemente per aver dato i natali ad un traditore. Non rimpiango la mia giovinezza (Waga seishun ni kuinashi), girato nel 1946, è una sorta di riepilogo storico della mutazione guerresca giapponese, dal 1931 alla fine della guerra, imperniato su diversi personaggi che vivono sulla loro pelle l’opposizione alla dittatura e al conflitto. E come se quelle operaie ritornassero in scena, coscienti di vivere in una società nuova nella quale la guerra, finalmente, non esisteva più. Anche questa è una conferma che, nell’ambito del cinema di finzione, la certezza dei messaggi propagandistici non è quasi mai stabilizzata dalla semplice trama ma, piuttosto, dal rapporto che si crea tra il pubblico e i personaggi e che, talvolta, finisce per cancellare il messaggio “applicato” alla trama.
di Gianni Olla