In ricordo di Orio Caldiron

Il SNCCI ricorda la persona e il lavoro di Orio Caldiron.

Nel commemorare i grandi studiosi come Orio Caldiron, figura insostituibile di intellettuale a largo spettro, infaticabile e curioso, aperto e pronto a dare una chance ai più giovani, sarebbe semplice ed elusivo ricordarsi soltanto del periodo principale di attività, che l’ha visto insegnare e formare generazioni di allievi come docente di Storia del cinema all’Università  “La Sapienza” di Roma, ricoprire l’incarico di storico direttore della rivista «Bianco e Nero», curando inoltre alcuni volumi chiave della Storia del cinema italiano pubblicata da Marsilio con il Centro Sperimentale di Cinematografia, di cui è stato anche presidente.

C’è un altro Orio che va in continuità con quello più imponente pregresso, l’Orio più recente e in cui si rifletteva ancora la coerente statura fisica, le mani grandi e generose, l’accento veneto pungente, l’estro irrefrenabile che giustamente l’aveva portato alle importanti monografie su Totò, la più nota e giustamente rieditata, Isa Miranda, Cesare Zavattini, Michael Curtiz, Pietro Germi, Giuseppe Rotunno. L’ultima stagione della sua fitta opera ha addirittura registrato, anche e volentieri lontano dai riflettori, se possibile un incremento ulteriore degli impegni, dei progetti, dell’attività svolta parallelamente alla collaborazione «Alias» del quotidiano «il Manifesto».

Della sua straordinaria capacità di talent-scout nel dialogare e dirigere come un generale d’armata chi scrive in questo caso ne sa qualcosa, donde il debito inestinguibile che rende queste parole disorientate e dense di commozione.

Ed è dello spirito di chi non si arrende anzi rilancia che vien voglia quindi di parlare a proposito di Orio, padovano di nascita (24 settembre 1938) e romano di adozione, scomparso lo scorso 28 marzo. Nello scegliere sinteticamente le righe del testo che lo riguardava nella quarta di copertina di Soprese di una grande stagione – Cinema, storie e miti tra Cinecittà e Hollywood (Falsopiano, 1924) mi fece infatti tagliare molti titoli acquisiti durante la sua carriera, compresa la dicitura di “storico del cinema”, preferendo quello di “critico”, che sembrerebbe – e mi sembrava, ammetto, nel suo caso – riduttiva. Invece a quella categoria sentiva profondamente di appartenere, come persona legata alle origini e che cerca erga omnes una chiave indipendente di pensiero, fuori da schemi ideologici, vincoli accademici o rassegnazione al presente in cui la scrittura breve e frettolosa veicola volentieri, per dirla con Ennio Flaiano, «poche idee ma confuse». Ho intuito, ma non abbastanza da trarne le dovute conseguenze, che quel libro dello scorso anno era una specie di testamento. Da perfezionista aveva scelto una miscellanea di interventi, dopo Buona la prima – Il cinema di Carlo Ludovico Bragaglia (Centro Sperimentale di Cinematografia/Sabinae), curato con l’inseparabile compagna di una vita, Matilde Hochkofler, e Oltre Eboli. Da Carlo Levi a Francesco Rosi (CinemaSud, 2024), condiviso con me e il prezioso Paolo Speranza.

Certo, i tanti che hanno collaborato con lui e gli hanno voluto bene non si aspettavano questo finale improvviso di partita. Lui invece l’ha costruito nell’ultimo anno con la perizia di un anziano samurai di antica tradizione, allontanandosi da Roma e rendendosi ostinatamente irraggiungibile. Questa ingiusta scelta di non importunare nessuno, imperdonabile, desta sì ancora “sorpresa”, ma gli va dato atto che appartiene a un’ineludibile “grande stagione” e dunque merita rispetto e ammirazione come un atto compiuto che reca il segno di un talento creativo, appunto “critico” e lungimirante, adatto a grossi progetti e a operazioni di riscoperta e studio certosino, fino all’ultimo, avulso orgogliosamente da un contesto generale in cui pensare in grande è diventato un tabù.


di Anton Giulio Mancino
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