Nuove frontiere del cinema. L’esperienza immersiva della VR
Quali sono le nuove frontiere del cinema? E sono effettivamente "nuove"? Con l'esperienza immersiva della VR, cui ha dato risalto anche l'ultima Mostra di Venezia, si permette allo spettatore di far parte dello spettacolo. Qualche riflessione a riguardo.
Tentare oggi di comprendere il senso del medium realtà virtuale, abbreviato in VR, soprattutto nel contesto dell’espressione cinematografica, può essere un esercizio tutt’altro che scontato, sicuramente prematuro. Un’identità ancora sfuggente alle classificazioni e in piena fase primigenia, dove i settori di applicazione sono molteplici e diversificati, ne fa un mezzo non solo versatile negli ambiti di utilizzo e negli scopi, spaziando dalla medicina, l’architettura, la didattica, i videogame, fino al mero intrattenimento; ma anche un terreno di sperimentazione per l’arte e il cinema dove l’assenza di codici, schemi e convenzioni traccia un orizzonte libero e inesplorato per quegli autori e registi in cerca di alternative (o di varianti, si potrebbe anche dire) al racconto audiovisivo che siamo abituati a concepire. Uno spazio altro capace di dare forma potenzialmente a qualsiasi idea visiva e narrativa in cui lo spettatore smette il ruolo passivo di osservatore, conquistandosi una centralità impensabile per il cinema classico, tant’è che si fa fatica a descrivere l’esperienza VR a chi non ne ha mai fatta una (siamo ben al di là del più semplice 3D stereoscopico in sala), proprio per la sua unicità rispetto ad altre forme di racconto che prevedono la dicotomia schermo-spettatore, senza contare le possibilità ristrette di fruire di questo tipo di prodotti, quasi sempre accessibili – per via dei costi e delle strutture necessarie – solo agli addetti ai lavori e in particolari contesti, come le grandi fiere o i festival.
Ma se scandagliare le ragioni di questo nuovo mezzo espressivo si rivela ancora un’attività precoce, data la sua giovinezza e la costante evoluzione degli apparati tecnologici che condizionano il suo funzionamento, più interessante è interrogarsi su quanto la realtà virtuale e le sue potenzialità vadano ad incidere sull’esperienza filmica, e in che misura la sua unicità si avvicini e si allontani dalla proiezione su grande schermo (o su tv), specie se consideriamo che le diverse tecnologie e visori oggi disponibili offrono livelli di coinvolgimento e interazione differenti, da una semplice visione a 360 gradi fino alla possibilità di muoversi fisicamente nello spazio narrativo, interagire con esso, o addirittura percepire stimoli sensoriali.
Il cinema in virtual reality ci obbliga a ripensare non soltanto alla grammatica del linguaggio cinematografico, che mette in discussione, ma pure allo stesso rapporto dello spettatore con l’immagine in movimento, avvicinandolo, fino alla penetrazione, a quello schermo del desiderio di sogni e illusioni, confine tra il reale e il suo riflesso che nel film VR si infrange per concedere il privilegio di osservare il mondo diegetico da una prospettiva interna, in cui cade il concetto di fuori campo e con esso il bisogno di guidare lo sguardo attraverso l’inquadratura, il montaggio e i movimenti di macchina, funzioni demandate invece ai suoni, agli stimoli visivi, ai gradi di interazione, e ovviamente alla qualità del racconto. Un progetto come Arden’s Wake di Eugene Chung (2017), ad esempio, colloca il punto di vista a pelo d’acqua, a poca distanza da una palafitta in mezzo al mare. E mentre il racconto in stile Pixar avanza, lo spettatore costruisce una personale scansione degli avvenimenti, spostandosi virtualmente nel set, con la possibilità di andare sott’acqua o infilare la testa nell’abitazione alla ricerca dello scenario più interessante.
È la stessa idea di regia che vacilla e si ricompone alla luce dei contorni di questo nuovo medium, contenitore di storie/esperienze in cui il cinema si espande per avvicinarsi a una visione totalizzante – e al tempo stesso quasi sempre individuale – non esclusivamente narrativa, ma predisposta anzi all’astrattismo e all’onirismo. Come accade nel bellissimo L’île des morts di Benjamin Nuel (2018), in cui la nostra casa si apre come una scatola per trasportarci verso l’isola dei morti dipinta da Arnold Böcklin, accompagnati dall’ennesimo Caronte. Tuttavia la VR può anche essere per un regista l’occasione di sperimentare un’estensione della propria cifra stilistica, come fa Tsai Ming-liang nel suo The Deserted (2017).
Non siamo di fronte probabilmente al futuro del cinema, bensì a una sua ramificazione, che vive di un linguaggio proprio e una direzione parallela. A riflettere sulla dignità cinematografica di questi nuovi codici ci stanno già pensando i grandi festival internazionali, soprattutto Venezia che da due anni scommette sulla sezione Venice VR, guardando con interesse al tipo di esperienza e affiancandolo senza pregiudizio alle altre sezioni della Mostra. In quella che forse un giorno sarà la sua stessa preistoria, la realtà virtuale promette oggi di imporsi come un alveo di novità ed evoluzioni di linguaggi, concorrendo a sviluppare il concetto di cinema-esperienza, anziché quello di cinema-spettacolo, in cui lo spettatore abbandona le vesti passive di semplice osservatore e “attraversa lo schermo” per immergersi, vivere, e interagire con le storie.
di Michele Menditto