Wicked
La recensione di Wicked, di Jon M. Chu, a cura di Gianlorenzo Franzì.
La codificazione non esiste solo per quanto riguarda i generi, ma anche (e soprattutto?) sul gradimento del pubblico riguardo alcuni modi di declinare le storie: non è un mistero, allora, che se l’horror attecchisce in tutte le forme, in Italia, il musical invece stenti, e non poco.
Il nostro Paese, infatti, patria del neorealismo, non ha mai visto di buon occhio i lustrini, la forzata allegria e l’artefatta (ir)realtà del musical di Broadway: ma è probabilmente un retaggio legato ad abitudini e usanze vecchie e dimenticate, legate a trame inconsistenti e mielose
Wicked è un celebre musical del 2003, composto da Stephen Schwartz (musiche e testi) con libretto di Winnie Holzman, e basato sul romanzo Strega – Cronache dal Regno di Oz in rivolta (Wicked: The Life and Times of the Wicked Witch of the West) di Gregory Maguire, a sua volta rivisitazione ed espansione del Meraviglioso Mago di Oz di L. Frank Baum con numerosi riferimenti all’adattamento cinematografico del 1939; ed è il quinto musical più a lungo rappresentato a Broadway.
Ed è un musical che prima di tutto contravviene a quelle regole vetuste per cui il genere non piace al pubblico italiano; ma è poi una piacevole sorpresa per la declinazione che riesce a fare di una storia abusata a tutte le latitudini come quella di Baum, in maniera certo ambiziosa ma ancora più sicuramente curiosa, classica e riuscita.
Fin dalle primissime sequenze, il film di Jon M. Chu si diverte a sovvertire e ribaltare le prospettive della favola, scegliendo di seguire il percorso di crescita della malvagia Strega dell’Est come se fosse una vera e propria storia di formazione. È in questo modo che sfuma la scala di grigi e confonde Bene e Male in maniera mai convenzionale, anzi usando un genere come il musical per dissacrare le polarizzazioni.
Ma Chu si spinge anche più in là: omofobia, razzismo, emarginazione sociale, disabilità, sono temi caldissimi almeno quanto attualissimi, eppure Wicked ha il pregio di maneggiarli con cura ma non con riverenza, e li innesta in un percorso di scoperta con spontaneità e limpidezza, creando un mélange tra il cinema classico degli anni ’50 e le tinte cromatiche del glam. Elphaba (interpretata con misura e ironia da Cynthia Erivo) è un crocevia di senso e sottotesti, ma la scoperta più gradita è forse quella della Glinda di Ariana Grande mentre gioca con i clichè ribaltandoli uno ad uno: insieme, riescono nell’improba quanto azzardata impresa di far tornare in auge il meò cantato.
di Gianlorenzo Franzì