The Dark Nightmare
La recensione di The Dark Nightmare, di Kjersti Helen Rasmussen, a cura di Emanuele Di Nicola.

Quando si legge nella sinossi “giovane coppia arriva nella casa nuova”, subito si fiuta il pericolo di genere: il tema primario, l’archetipo horror, il rischio stereotipo. Attorno a questa base viene costruito The Dark Nightmare, l’esordio della regista norvegese Kjersti Helen Rasmussen dall’11 giugno nelle sale italiane distribuito da BIM. Per la verità il film è del 2022, presentato in vari festival di genere, e si intitola NightMare, con un riferimento preciso: il Mara è il demone della tradizione nordica che ti cavalca il petto provocando incubi, e qui avvolge a sé la protagonista Mona. Lei e Roby sono infatti quella “giovane coppia” che ha appena acquistato la dimora, in cui si trasferiscono forti della loro relazione idillica, desiderosi di costruirsi una famiglia.
Purtroppo per loro, mentre l’appartamento va ristrutturato, alcuni eventi turbano l’incanto del loro rapporto, come delle grida misteriose provenienti dai vicini. Ecco che gradualmente irrompe sulla scena il Mara, creatura antica, colei che linguisticamente diede origine al nightmare ma anche al francese cauchemar, insomma all’idea dell’incubo. Inutile dire che l’ombra di un sotto-filone si allunga minacciosa, a partire dal killer dei sogni per antonomasia, Freddy Krueger che continua a infestare un immaginario.
Da parte sua Mona, interpretata da Eili Harboe, che alla stessa latitudine aveva retto un ruolo simile nel “phenomenale” Thelma di Joaquim Trier, inizia a confondersi: non sa più distinguere realtà e sogno, scivolando in una crasi inscindibile a partire dalla sequenza sessuale notturna in salotto quando, sorpresa dal compagno, si scopre che non si sta accoppiando con nessuno… O forse no. La dinamica si sviluppa e gli eventi precipitano, sempre più, in un accerchiamento lento ma inesorabile di cui non si può dire troppo, se non che c’è di mezzo un neonato.
Come ha spiegato la stessa regista, l’horror ancora una volta si iscrive nella vita e sul corpo delle donne: “Temi profondamente femminili — come l’equilibrio tra carriera e vita privata, la paura della maternità e le aspettative sociali — vengono esplorati nel corso del film”, afferma Rasmussen. Le ambientazioni sono praticamente due: la casa della coppia e la clinica del sonno, dove Mona è costretta a farsi esaminare quando non sa più dormire. Del resto una persona su tre soffre di disturbi del sonno, come ci informa la didascalia in esergo. L’appartamento viene fotografato sui toni del nero, inaugurando una dialettica tra visto e non visto, tra palese e occulto con gli spazi oscuri in cui si nascondono mostri; il racconto si apre a una forma di luce solo negli stralci ospedalieri, per poi ricadere nel buio esteriore e interiori. I demoni, come sempre, sono anche dentro di noi.
Il film percorre i sentieri del genere offrendo una variazione sul tema, che è un topos dagli albori e viene declinato per tutta la Storia dell’horror: non dormire e incontrare mostri come terrore primitivo, attestato – a titolo di esempio – da Insomnia di Stephen King o dal recente Slumber – Il demone del sonno. Ecco, il Mare è un’altra figura dell’orda mostruosa: peccato però che il film soprattutto nella seconda parte si limiti al ripasso dei consueti stereotipi rimettendoli in scena, tra jumpscare, maternità problematica e resa dei conti con l’empio essere. Al netto di una notevole sequenza splatter armata di martello, la messinscena si limita dunque a proporre un modulo di genere, impaginando il noto senza particolare interesse a ravvivare la materia demoniaca.

di Emanuele Di Nicola