Aragoste a Manhattan

La recensione di Aragoste a Manhattan, di Alonso Ruizpalacios, a cura di Guido Reverdito.

L’altra faccia dell’American dream ma anche di tutto il cinema, le serie TV e gli show che ruotano intorno al cibo e a chi lo prepara rendendolo in vari modi oggetto di culto da share. Questo quarto film del messicano Alonso Ruizpalacios (che aveva esordito nel 2014 con Güeros, racconto tesissimo sulle proteste degli studenti messicani negli anni ’90, per poi ritagliarsi quattro anni dopo un posto di diritto nel gota del nuovo cinema del proprio paese col bizzarro heist movie Museo, Orso d’argento per la miglior sceneggiatura originale alla 68esima edizione della Berlinale) è appunto una specie di pietra tombale sia sull’enogastronomia morbosa da piccolo schermo che soprattutto sulla fine del sogno di molti immigrati che arrivano negli USA pensando di trovare l’Eldorado ma che finiscono invece col dover fronteggiare solo sfruttamento, umiliazioni ed emarginazione sociale.

Nel pieno centro di Manhattan c’è un ristorante alla moda (“The Grill”, nomen omen che certo non brilla per originalità ma che suggerisce metaforicamente lo stato in cui versano tutte le maestranze che hanno la malasorte di lavorarci) in cui si affanna un plotone di disgraziati divisi tra il servizio ai tavoli affidato a ragazze sempre allo stremo, l’inferno delle cucine con quasi tutti maschi in preda ad astratti furori e sempre sull’orlo di una crisi di nervi, ma anche lo stress costante di chi dirige le due masnade spremendole come limoni.

Un girone dantesco diviso tra sopra e sotto in un miscuglio eterogeneo di razze e linguaggi in cui ciò che conta non sono di fatto né il cibo né il come lo si prepara, quanto piuttosto i ritmi massacranti cui la massa di lavoratori (quasi tutti immigrati dai paesi del centro e del sud America) è sottoposta per stare al passo con le comande, gli spazi angusti e asfittici in cui cuochi e cameriere sono costretti a convivere condividendo sfaceli di vite senza futuro, e i confronti virulenti sempre al limite della rissa violenta cui fa da detonatore il razzismo strisciante dei pochi bianchi che fanno la voce grossa forti di gerarchie ataviche che ne sostengono i soprusi anche in questa bolgia infernale di umiliati e offesi dal fallimento del sogno americano.

Non si creda quindi di essere di fronte a un prodotto da assimilare al troppo cinema melenso sulla cucina e dintorni. Qui siamo lontani anni luce da estremi quali la delicatezza di Ratatouille e la crudeltà di The Menu, ma nemmeno nella periferia di una commedia sarcastica del calibro di The Bear. La Cocina (questo il titolo originale del film che la creatività dei titolisti di casa nostra ha convertito, superandosi ancora una volta, nello stucchevole richiamo alle aragoste come metafora dello sfruttamento di disgraziati dati in pasto al cannibalismo capitalista della più opulenta città del mondo) è invece un film profondamente politico che usa il filone del cinema da guida Michelin per ergersi a rappresentazione potente dello sfruttamento più bieco dell’immigrazione così come della prevaricazione dei potenti sui più deboli, nonché della sopraffazione di chi fonda sul privilegio di casta e di censo (tanto la clientela quanto i manager di “The Grill”) il diritto di angariare masse indistinte di pariah in fuga da esistenze negate.

E non è un caso che la sceneggiatura di questo Aragoste a Manhattan sia un libero adattamento di The Kitchen, primo successo teatrale del drammaturgo inglese Arnold Wesker che già nel lontano 1957 invitava il pubblico a riflettere su queste stesse storture del mondo (anche se nel suo testo – già trasferito al cinema da James Hill nel 1961 – gli sfruttati erano immigrati dell’Est Europa nel Regno Unito), usando una cucina come un ring elettrico dominato dall’ingiustizia sociale senza che la luce della speranza di un futuro migliore ne potesse illuminare il cupo presente.


di Guido Reverdito
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