The Alto Knights – I due volti del crimine

La recensione di The Alto Knights - I due volti del crimine, di Barry Levinson, a cura di Roberto Baldassarre.

Nella corposa filmografia incentrata sulla mafia c’è un prima e un dopo. Crinale di questa spartizione sono le pellicole di Martin Scorsese, dall’acerbo e parziale Chi sta bussando alla mia porta (Who’s That Knocking at My Door, 1969) fino al “manieristico” The Irishman (2019). Con un culmine espressivo che si riscontra nel dittico Quei bravi ragazzi (The Goodfellas, 1990) e Casinò (Casino, 1995). Antecedentemente fu Il Padrino (The Godfather, 1971) di Francis Ford Coppola a generare un “sottobosco” di film mafiosi (e parodie), ma è la cifra stilistica scorsesiana che si è imposta definitivamente. Uno stile fiammeggiante, didascalico, venato d’ironie (verbali) e con improvvisi scoppi di violenza da cui successivamente molti altri registi hanno attinto.

Anche se il plot non riguardava specificamente la mafia. Il succitato dittico, dentro quello sfavillante tocco narrativo, era un preciso resoconto antropologico della mafia italo-americana, che si basava su indagini – raccolte nei romanzi da cui Scorsese ha tratto i film – svolte da Nicholas Pileggi, uno dei maggiori esperti dell’argomento. Ed ecco che Pileggi è lo sceneggiatore di The Alto Knights – I due volti del crimine (The Alto Knights, 2025) di Barry Levinson, biopic su Vito Genovese e Frank Costello, ambedue interpretati da Robert De Niro. Un ulteriore tassello, a suo modo accurato, che va ad aggiungersi alla già congrua filmografia mafiosa. Anzi, diviene quasi uno snodo cine-storico tra gli ultimi bagliori della mafia “romantica” e rispettosa di Vito Corleone e la successiva mafia criminale “degenerata” di Anthony Spilotro e Frank “Lefty” Rosenthal.

Però The Alto Knights, prima ancora di essere un film biografico su Genovese e Costello, diviene quasi una ricapitolazione di molti Mafia Films pregressi. Partendo proprio dalla duale interpretazione di Robert De Niro, artisticamente rigenerato dal ritorno alla collaborazione con Scorsese, che incarna Genovese gigionescamente come l’Al Capone de The Untouchables – Gli intoccabili (The Untouchables, 1987) di Brian De Palma, e personifica Costello come il razionale e tranquillo Sam “Ace” Rothstein di Casinò. A cui si aggiungono le schermaglie tra i due De Niro, che ricordano le controversie tra Nicky Santoro e Rothstein, e che culmineranno anche qui in un tentativo di assassinio.

C’è poi la presenza di Kathrine Narducci, già collega di De Niro in Bronx (A Bronx Tale, 1993) e The Irishman, a rimarcare il senso di riconoscibilità con il genere. E soprattutto la messa in scena di Barry Levinson, coadiuvato dal direttore della fotografia Dante Spinotti, che tenta di recuperare la cifra stilistica creata da Scorsese, fondendo quella di Quei bravi ragazzi (Freeze Frame, narrazione in prima persona al pubblico, ironia, filmini proiettati per rievocare il passato) e di The Irishman (narrazione classica). Tutti elementi di pregio che però non riescono a conferire la stessa pregnanza scorsesiana alla materia trattata. Restano pertanto la convincente interpretazione di De Niro, e soprattutto la parte didascalica della sceneggiatura di Pileggi, che fornisce un aggiuntivo rendiconto, espresso tramite la voce memoriale di un ormai vecchio Frank Costello, del modus operandi della mafia della prima metà del secolo del Novecento. Rapporti tra mafia-politica-polizia, gestiti egregiamente da Costello che vorrebbe rendersi rispettabile (come Rothstein); questioni affaristiche, quali l’entrata della droga in America; e rapporti e scontri tra i boss delle varie famiglie, con Anthony Gigante (Cosmos Jarvis), personaggio collaterale e semplice sgherro di Genovese, che diverrà uno dei nuovi rappresentanti della mafia.


di Roberto Baldassarre
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