Synecdoche, New York

Esordio alla regia del talentuoso sceneggiatore Charlie Kaufman, Synecdoche, New York non tradisce le tendenze e le peculiarità dell’intricato e surreale universo kaufmaniano, ma anzi le riconferma pienamente, mostrando chiare assonanze – nelle atmosfere, nello stile, nella struttura – con film come Se mi lasci ti cancello (tra i migliori del francese Gondry) e Essere John Malkovich (cervellotico e visionario esperimento di Spike Jonze), entrambi sceneggiati appunto da Kaufman.
Il protagonista di Synecdoche, New York è Caden Cotard (un eccezionale Philip Seymour Hoffman), regista teatrale; il suo mestiere – che idealmente coincide con la creazione di una replica, di una simulazione della realtà – è l’imput necessario e cruciale che permette di chiamare in causa il concetto del doppio, che dominerà tutto il film in un continuo, esasperato gioco di specchi e parallelismi, in cui finzione e realtà si intrecciano in modo indissolubile.
Caden si convince di essere affetto da una malattia misteriosa e fatale, di cui nessun medico sembra comprendere con sicurezza cause e conseguenze; nel frattempo il matrimonio con Adele – un’artista di successo – si sfalda pian piano, fino a che la donna decide di trasferirsi a Berlino portando con sé la loro figlia Olive, e quello che era sembrato un temporaneo allontanamento si rivela un addio definitivo e doloroso.
Il regista teatrale, sicuro che la fine sia prossima, vuole mettere in scena in un’opera mastodontica e totalizzante la sua stessa esistenza: fa quindi ricostruire interi palazzi (i luoghi della sua vita) in un enorme spazio coperto, che rappresenta a tutti gli effetti un doppio, un simulacro della vera New York, o meglio la sua sineddoche. Qui tutto è finzione e artificio, e un assortito e ampio cast di attori sempre in movimento recita dialoghi già pronunciati da Caden e dai suoi amici nella vita reale.
Ogni cosa viene trascinata in questo turbinio di duplicazioni e ripetizioni, fino a che l’essenza del vivere non si fonde con la sua stessa messa in scena, le distanze si annullano e le identità si sommano e si sovrappongono. Al contempo, suggestivi elementi onirici fanno incursione in questa quotidianità già allucinata e alterata (una casa in fiamme che non finisce mai di bruciare, un fiore tatuato che appassisce e muore perdendo petali veri) e abbondano ellissi temporali quasi spiazzanti, metafora anche di una concezione del tempo – quella del protagonista – distorta e confusa. Del resto Caden appare sempre più dominato dalle proprie intime ossessioni – abbandono, solitudine, morte – tanto da perdere il contatto con ciò che lo circonda (ad esempio, il rapporto con la sua nuova famiglia).
Come accadeva nelle precedenti sceneggiature di Kaufman, anche qui il filo della narrazione diventa man mano un groviglio vero e proprio, mentre la dissoluzione del confine tra realtà e artificio si fa totalizzante; sembra quasi, nella seconda parte del film, che la materia della messa in scena (fluida, tentacolare, ingannevole, instabile) stia per sfuggire di mano al regista, che tuttavia riesce in ultimo, con una riuscita virata finale, a riportare l’opera entro le sue coordinate: ecco allora che Synecdoche, New York si “confessa” allo spettatore e rivela la sua intima natura, quella cioè di una meditazione dolente e disperata sul rimpianto, il fallimento, la solitudine e l’implacabilità del tempo che passa.
Se si accetta a priori di parlare il linguaggio di Kaufman, non dissimile a tratti da quello dei sogni, se si pone in atto insomma un patto silenzioso con il demiurgo di questa creazione multiforme e stratificata, allora anche certe minime debolezze del film (che resta in un certo senso una traccia monocorde senza alti e bassi, dove ogni scena ha la stessa atmosfera e “densità” delle precedenti e delle successive, e l’evoluzione narrativa è ritracciabile solo nell’affastellamento, nella somma e nel parossismo), diventano pressoché insignificanti rispetto alla pregnanza del discorso che l’opera pone in atto e rispetto all’originalità e alla coerenza di una messa in scena che per stile e caratteristiche rivela una precisa, chiara e definita identità autoriale, che trova la sua essenza profonda in una fantasiosa visionarietà e in un fascinoso onirismo.
di Arianna Pagliara