Sugarcane

La recensione di Sugarcane, di Emily Kassie e Julian Brave NoiseCat, a cura di Francesco Di Pace.

Nel 2021 furono scoperte in Canada, vicino alla Riserva Sugarcane, tombe anonime situate nei pressi di un Collegio per indiani nativi gestito dalla Chiesa Cattolica, il Saint Joseph’s Mission. I corpi ritrovati furono subito messi in relazione con le storie e le testimonianze, che già stavano venendo fuori, di abusi, torture e sparizioni di cui furono vittima i bambini indigeni in quella scuola: un vero e proprio genocidio nascosto, che si aggiunse al fatto che quel tipo di scuole, nate all’inizio dell’Ottocento, già avevano contribuito a separare forzatamente le nuove generazioni di indiani del Nord America dalle loro famiglie. Allontanati dai genitori, con la scusa di fornir loro un’educazione, questi bambini finivano spesso vittima di abusi da parte dei sacerdoti della Missione, le violenze portavano queste povere vittime a suicidarsi, senza contare che le giovani fanciulle a volte rimanevano incinte e davano alla luce neonati che venivano poi dati in adozione.

Questa pagina drammatica della storia nordamericana viene raccontata in un toccante documentario, Sugarcane, prodotto da National Geographic (in Italia si vedrà su Disney+) che è stato presentato in questi giorni alla Festa del Cinema di Roma, dopo aver vinto al Sundance il Grand Jury Award per la Regia: ne sono autori due filmaker e giornalisti all’esordio, Emily Kassie e Julian Brave NoiseCat , quest’ultimo anche lui discendente dai nativi indigeni.

Raccontato come un vero e proprio “true crime”, il film parte dalle investigazioni seguite al ritrovamento dei corpi, strutturandosi in tre storie parallele, ognuna col suo carico di trauma generazionale, tutte miranti al disvelamento di un orrore vissuto e per lunghi anni volutamente ignorato o sepolto: la storia di Charlotte, una sopravvissuta che segue le indagini di un’intera comunità, quella della Williams Lake First Nation, ostinata nella ricerca di altri testimoni delle conseguenze devastanti subite anche a livello psicologico; quella di Rick Gilbert, capo della First Nation, che scopre ormai anziano di essere figlio di un prete irlandese e che ora, lui fervente cattolico, si reca fino a Roma in un’udienza concessa da Papa Francesco alla comunità, durante la quale il Papa chiederà perdono per i crimini; la storia del regista Julian, infine, che in seguito a un viaggio anche personale attraverso i suoi territori natali, finisce per scoprire quasi inaspettatamente che il padre e la nonna erano stati anche loro testimoni diretti e vittime di quei tragici avvenimenti. Il documentario è un pugno nello stomaco, ma ha il grandissimo valore di far luce su una pagina oscura della storia canadese (lo stesso primo ministro Trudeau è stato quasi costretto a chiedere perdono dopo l’udienza del Papa): lo fa restituendo finalmente una dignità a un gruppo di persone che sta lottando per il riconoscimento della verità ma anche per il ritrovamento di una identità e una cultura da cui erano stati derubati. “Non basta il perdono”, dice a un tratto un sopravvissuto, quello va bene, ma poi devono necessariamente seguire dei fatti. Sugarcane può in questo senso diventare uno strumento di guarigione collettivo e personale e nello stesso tempo offrire la speranza che lo spirito di un popolo non sarà seppellito e cancellato.

A statue of Mary and Baby Jesus looks over St. Joseph’s Mission, a former Indian residential school near Williams Lake, British Columbia, where a search for unmarked graves of former students is underway. (Credit: Christopher LaMarca/Sugarcane Film LLC)

di Francesco Di Pace
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