Ritorno a Seoul

Boris Schumacher recensisce il film di Davy Chou.

Freddie, 25 anni, arriva a Seoul in cerca delle sue radici. La ragazza è stata adottata da una coppia francese quando aveva pochi mesi di vita. Con sé ha solo una foto, con un numero scritto sul retro, che la ritrae da bambina insieme a una donna. Con l’aiuto di un paio di amici conosciuti a Seoul, Freddie si mette alla ricerca dei suoi genitori biologici tramite il centro di adozioni Hammond che ai tempi aveva gestito il suo affidamento. Freddie non conosce la lingua, gli usi e i costumi coreani, è una giovane donna francese dalle fattezze orientali (ha un volto antico notano dei coetanei incontrati in un ristorante) alla scoperta di un mondo ignoto e sconosciuto. Freddie è irrequieta, i suoi stati d’animo sono mutevoli e insondabili, le sue azioni e reazioni risultano imprevedibili per le persone che la circondano, estranee al suo stile di vita e distanti dalla sua mentalità occidentale. Freddie ha una famiglia adottiva che si è sempre presa cura di lei e non le ha fatto mancare niente ma si porta appresso un vuoto incolmabile, un bisogno atavico e innato di scoprire le sue radici e di conseguenza di conoscere meglio se stessa.

Non è certo casuale se Ritorno a Seoul in un primo momento si sarebbe dovuto intitolare All the people I’ll never be, a sottolineare le lacune e le difficoltà della protagonista legate alla propria identità, ai rapporti interpersonali e al suo posto nel mondo. Il regista franco-cambogiano Davy Chou per il suo secondo film di finzione, presentato in Un Certain Regard di Cannes 2022, si è ispirato alla storia di una sua amica di origini coreane che qualche anno addietro aveva accompagnato a Seoul a incontrare il padre biologico. Come ha dichiarato lo stesso autore in alcune interviste, la storia di Freddie in parte è anche la sua, nato in Francia da genitori cambogiani fuggiti dal loro paese dopo l’avvento dei Khmer rossi. Il regista ha messo piede per la prima volta nella terra natia dei suoi genitori quando aveva 25 anni, dopo aver appreso che suo nonno era un produttore cinematografico. Qualche anno più tardi Chou realizza Le sommeil d’or, un documentario prezioso sulla cinematografia cambogiana perduta per sempre, spazzata via dal regime di Pol Pot.

A interpretare Freddie, che alla nascita aveva ricevuto il nome di Yeon-hee dai suoi genitori, è l’attrice esordiente Park Ji-min, di una bravura impressionante, quasi disarmante per la naturalezza e l’istintività con cui “abita” il personaggio e le sue trasformazioni nel corso dello sviluppo narrativo del film, contraddistinto da ellissi e stacchi temporali. Park Ji-min, nata in Corea ma trasferitasi in Francia da bambina coi suoi genitori, è un’artista visiva arrivata al cinema quasi per caso, grazie al regista Davy Chou, nuovamente a Cannes nel 2023 come membro della Giuria di Un Certain Regard, che ha visto in lei delle similitudini e analogie con il personaggio di Freddie. Una scelta felice e ispirata: la sua interpretazione – magnetica e seducente – è uno dei punti di forza di Ritorno a Seoul. Il modo in cui si è appropriata di un personaggio spesso indecifrabile, talvolta rabbioso e sgradevole, altrove vitale e travolgente come nella bella scena in cui balla da sola in un locale sulle note della magnifica Anybody di Jérémie Arache e Christophe Musset, contribuendo a caratterizzarlo in modo così unico e peculiare, è davvero sorprendente. Siamo pronti a scommettere che la rivedremo in altri film, è difficile che il cinema, europeo o orientale, si dimentichi di lei e la lasci tornare indisturbata a fare l’artista visiva.

E siamo più che ottimisti anche sul futuro di Davy Chou, che con Ritorno a Seoul ha dimostrato di avere un talento notevole e uno sguardo fuori dal comune, capace d’intercettare e di mescolare l’emotività e gli umori europei con la cultura e la sensibilità prettamente orientali. Il cuore pulsante del suo film risiede in particolar modo nel rapporto tra Freddie e il padre biologico che a differenza della madre, dolorosamente assente, accetta subito d’incontrarla. L’approccio iniziale con l’uomo, da cui Freddie si allontana poco dopo infastidita e incollerita per il dolore che le riversa addosso, e il successivo incontro tra i due a distanza di sette anni, col padre che ai suoi occhi appare quasi ringiovanito, cambiato e trasformato come del resto è cambiata e si è modificata pure lei, sono tratteggiati con grande cura e con profonda sensibilità. Il finale malinconico e amaro, nella hall di un albergo sperduto in mezzo al nulla, davanti a un pianoforte a cui Freddie si avvicina e inizia timidamente a suonare dopo una nuova delusione e l’ennesimo colpo al cuore, contribuiscono a rendere Ritorno a Seoul uno dei film più belli e sorprendenti di questa stagione cinematografica.


di Boris Schumacher
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