Rapito
Le recensioni di Francesco Crispino, Mariella Cruciani e Franco La Magna, seguite dalla rassegna stampa a cura di Simone Soranna riguardo a Rapito, di Marco Bellocchio, Film della Critica per l'SNCCI.
Rapito, di Marco Bellocchio, distribuito da 01Distribution, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI) con la seguente motivazione:
«Uno scontro politico, una guerra di religione, un dramma psicanalitico calato nel corpo e nella mente di un protagonista che all’inizio ha solo 6 anni. Nella conversione forzata di Edgardo Mortara, piccolo ebreo rapito dal Vaticano nel 1857, Marco Bellocchio ritrova le radici del suo lungo percorso cinematografico con l’impeto degli esordi e la maturità del maestro. Rievocando in tutta la sua potenza e la sua ambiguità morale una sorta di “caso Dreyfuss” ante litteram, e tutto italiano, che all’epoca ebbe risonanza mondiale. La consacrazione di un autore che non finisce di stupire».
La recensione
di Francesco Crispino
L’opera di Marco Bellocchio è piena di prigionieri. Tanto che è probabilmente attraverso questo personaggio che si rintraccia l’unità di un unico discorso declinato nella sua ultra sessantennale filmografia. È infatti nella sua condizione del prigioniero che Bellocchio situa il conflitto tra il Potere e l’Individuo, perché è qui che vi individua la coercizione del primo sul secondo. E che, film dopo film, assume le sembianze delle istituzioni preposte a conformarlo — siano esse reali, come la Famiglia, la Scuola, l’Esercito, o astratte, come l’Ideologia o la Religione. Il cinema di Marco Bellocchio d’altronde è una lunga sequela di personaggi ai quali non è permesso di agire e di pensare liberamente.
La vicenda di Edgardo Mortara — sottratto bambino nel 1858 alla propria famiglia ebraica per ordine di Pio IX — si prestava dunque perfettamente all’ennesima variazione sul tema che da sempre attrae il cineasta piacentino. Il quale, ispirandosi liberamente a Il caso Mortara di Daniele Scalise, l’ha trasposta per riflettere ancora una volta sul condizionamento operato dal Potere, e per realizzare un’opera magistrale per la sua capacità di dosare esattezza documentale e trasfigurazione visionaria, attitudine che peraltro è il tratto distintivo della sua inossidabile enunciazione.
Facendo assumere al personaggio di Edgardo Mortara — in maniera simile all’Aldo Moro di Esterno notte — una dimensione tragica e simbolica al tempo stesso. Perché scolpisce la profonda lacerazione di un Io-diviso tra l’essere e il dover essere, la cui legittima aspirazione alla libertà è negata dalla coartazione di un Potere colto ancora una volta nella sua fase crepuscolare. Un crepuscolo icasticamente sintetizzato nell’inquadratura soggettiva che ci congeda dall’ultimo Papa Re.
La recensione
di Mariella Cruciani
Percorrere la filmografia di Bellocchio da I pugni in tasca (1965) a Esterno notte (2022) significa, da una parte, fare i conti con il complicato percorso che ogni essere umano compie per superare modelli e condizionamenti familiari, dall’altra, misurarsi con il potere e la violenza delle istituzioni (la famiglia ne I pugni in tasca, il collegio in Nel nome del padre, l’ambiente militare in Marcia trionfale, l’informazione in Sbatti il mostro in prima pagina, il manicomio in Matti da slegare e Vincere e così via).
Nel nuovo film, presentato in concorso a Cannes, i due filoni si intrecciano, si complicano, si sovrappongono: nel 1858 Edgardo Mortara (Enea Sala), un bambino ebreo battezzato dalla cameriera all’insaputa di tutti, viene strappato ai suoi genitori, su ordine di Pio IX (Paolo Pierobon), perché un cristiano non può essere educato da giudei. Il piccolo, sradicato con un atto violentissimo dalla famiglia, troverà nel Papa un padre adottivo seducente e crudele, al tempo stesso, dal quale non riuscirà mai a separarsi.
Il Pontefice descritto nel film è un personaggio che pone se stesso al di sopra di tutto e tutti (“Io sono il Papa! Da quando si devono gradire le decisioni del Papa?”), pretende sincera sottomissione e sudditanza (“Avete dimenticato davanti a chi siete?”), minaccia ritorsioni (“Potrei farvi molto, molto male”) e, solo dopo aver punito, “magnanimamente” perdona. Di fronte a lui che agisce come un dio capriccioso, dispensando frustrazioni o inattesi riconoscimenti (“Figlio mio, benvenuto! Questa è la tua famiglia, adesso…”), il bambino non sa come muoversi e chiede aiuto a Enea, altro piccolo ospite del convento.
Se il film – come suggerisce la locandina – è la storia dell’abbraccio mortale tra il Papa e il bambino, i giovanissimi ospiti della Casa dei Catecumeni costituiscono una sorta di coro senza volto che ripete automaticamente precetti e litanie. Solo Enea appare più navigato e fornisce a Edgardo le indicazioni minime per sopravvivere in quel mondo chiuso e autoreferenziale (“All’inizio non capirai nulla… Guarda gli altri e ripeti… Fai quello che fanno gli altri…Questo lo devi imparare a memoria… Se fai il bravo, ti mandano a casa prima…”). Dal canto suo, il piccolo Mortara finirà per ambientarsi ma coverà, comunque, una perenne ambivalenza nei confronti del nuovo padre padrone.
Esemplari, in proposito, due momenti: nel primo, Edgardo appare del tutto indifferente alla presenza della madre (Barbara Ronchi) ma poi, disperato, la supplica di riportarlo a casa, nel secondo, ormai ragazzo, si unisce alle imprecazioni contro il Papa morto (“Buttiamolo nel Tevere ‘sto porco di un Papa schifoso…”). La doppiezza del suo stato d’animo emerge ulteriormente nella scena-chiave del film: qui, Mortara bambino fa cadere, forse involontariamente, il Papa (“Che hai fatto? Hai voluto ammazzare il Papa che ti ha voluto tanto bene?”) e questi lo umilia spietatamente davanti a tutti (“Fai tre croci con la lingua sul pavimento… Vedete come ha obbedito! I sacerdoti fanno voto di obbedienza…”) per poi congedarlo quasi affettuosamente (“La prossima volta, stai più attento!”)
Il rapporto Papa-bambino non consente vie di uscita: Edgardo sa che il dogma è una verità di fede a cui si crede senza fare domande e sa anche di essere chiamato, dopo aver ricevuto la Cresima, a non rinnegare mai il suo mentore. Nonostante le crisi di rigetto, egli terrà fede all’impegno preso persino al capezzale della madre morente: “Tu mi hai dato la vita ed io, con il battesimo, te la restituisco!”. Ciò che davvero impressiona in questa ostinata ricerca di conversioni forzate (“Quando vi sarete decisi a farvi cristiani, ve lo rimandiamo a casa…”) è la fiducia cieca degli uomini di Chiesa nel proprio Credo (“Lo facciamo per il bene tuo e della tua mamma…”).
La salvezza, promessa e dispensata a chi abbraccia la fede, ha un prezzo altissimo: la rinuncia all’esercizio del libero pensiero e l’adesione totale a verità che – come dice l’inquisitore (Fabrizio Gifuni) – non possono essere spiegate ad autorità minori. Lo spettatore si associa alla domanda posta dal fratello incredulo al protagonista: “Come puoi essere dalla parte di chi ti ha rapito?” La risposta di Edgardo è la seguente: “E’ stata una libera scelta!” Esattamente la stessa espressione venne, a suo tempo, utilizzata da Bellocchio per giustificare la “scandalosa” presenza dello psichiatra Massimo Fagioli sul set di Diavolo in corpo (1986).
Che sia lui a nascondersi – neanche tanto – sotto i panni di Pio IX? La Casa dei Catecumeni farà mica riferimento alle sedute di analisi collettiva? E Mortara non sarà, dunque, lo stesso Bellocchio alle prese con la contraddizione insuperabile di un rapporto che salva la vita ma a costo di separarsi obbligatoriamente e drammaticamente dalle proprie radici, dal mondo in cui ci si è formati? Partendo – come ogni artista vero – dal proprio vissuto, “il regista più punk che abbiamo in Italia” (definizione di Filippo Timi) si interroga e ci interroga su questioni imprescindibili, vitali, universali: che rapporto c’è tra salvezza e rinuncia a se stessi? Dove inizia e finisce la libertà? Fino a che punto si può accettare il paradosso di un potere che sana ma obbliga all’obbedienza? In perfetta continuità con Marx può aspettare (2021), Rapito (2023) è, al contempo, rivelazione intima dell’autore, sintesi del suo cinema, bilancio esistenziale, artistico, umano: un’opera potente e matura, urgente e di grande impatto. Da non perdere.
La recensione
di Franco La Magna
Il tracollo del potere temporale della Chiesa, del dispotismo del Papa Re. Prevalentemente ambientato in una Bologna ricostruita a Roccabianca (PR), buia, notturna, inquietante, dominata e terrorizzata dal Santo Uffizio, alla fine finalmente ribelle (1859). Dal 1858 al 1870 (20 settembre, storica breccia di Porta Pia), l’incredibile vicenda del piccolo Edgardo Mortara, sottratto ai genitori ebrei all’età di sette anni perché furtivamente battezzato da una serva cattolica e quindi secondo i coercitivi, dogmatici e inappellabili “diritti” sanciti dal Diritto canonico, appartenente ormai alla Chiesa cattolica, il cui potere d’indottrinamento (fin quando si è veramente liberi di scegliere?) sconvolgerà la vita del piccolo Edgardo (convertendolo definitivamente al credo cristiano) e dell’intero nucleo familiare.
Magistralmente interpretato da un affiatato team attoriale, girato in parte a Sabbioneta (MN) e con alcune sequenze a piazza Maggiore (BO), impeccabile nei costumi, nella meticolosa ricostruzione ambientale e nelle tenebrose atmosfere del tempo, liberamente ispirato al libro di Daniele Scalise Il caso Mortara. La vera storia del bambino ebreo rapito dal Papa (1966), Rapito (2023), ultimo film impeccabilmente diretto da un Marco Bellocchio in stato di grazia, ghermisce la categoria del capolavoro, per quanto colpevolmente e scandalosamente ignorato all’ultimo festival Cannes (dove era candidato alla Palma d’Oro), che aggiunge al panorama non esaltante dell’attuale produzione cinematografica (non solo nazionale) e alla coerente filmografia del regista piacentino, uno dei film più indimenticabili degli ultimi decenni.
Ma veramente, al di là dell’inaccettabile azione criminale della Chiesa cattolica, in conclusione, la domanda di fondo resta: davvero Edgardo Mortara sarebbe stato libero di scegliere la propria fede (fede, come tutte le credenze religiose, dominata dal dogma) se fosse rimasto legato al proprio nucleo familiare originario? Non avrebbe subito lo stesso fanatico e dogmatico condizionamento psicologico, solo apparentemente meno coercitivo, perché “naturalmente” ereditario?
E qui prepotentemente entra in gioco la vexata questio della libera scelta degli esseri umani, scelta che Edgardo alla fine crede di aver compiuto in piena libertà, tanto diventa “consustanziale” l’abbraccio mortale con un Pontefice (Pio IX, ultimo Papa-Re) che affanna e che consola, che tiranneggia, opprime, e infine perdona! Ed è qui, nell’accettazione della presenza del divino, che l’esaltazione dell’autosufficienza dell’umanità, la speranza di una possibile redenzione affidata agli esseri umani nella storia, viene negata, distruggendo la speranza in un “mondo nuovo”, realizzato nell’opzione antireligiosa. Un “Regno” laico, libero dai mali che da sempre affliggono una umanità oppressa dall’ingiustizia e fondata sulla disuguaglianza. Notevole la drammatica colonna sonora di Capogrosso. Assolutamente da non perdere.
Una breve rassegna della stampa italiana sul film
(a cura di Simone Soranna)
Il film di Marco Bellocchio è stato accolto positivamente dalla totalità della stampa italiana. Presentato in Concorso al Festival di Cannes, le prime recensioni estremamente positive sono arrivate proprio da chi ha potuto assistere all’anteprima del film sulla Croisette. Sulle pagine di FilmTV, Giona Nazzaro loda così il progetto: «con olimpica leggerezza, Marco Bellocchio continua a realizzare film di straordinaria tenuta formale, poetica e politica, come se avesse deciso di imprimere a questo capitolo della sua opera un’accelerazione che di solito è associata alla produzione commerciale». Della stessa opinione è Paolo Mereghetti che, su Il corriere della sera descrive così il film: «usando al meglio la propria cultura ed eleganza visiva (molte le citazioni pittoriche) e un cast davvero in stato di grazia (a partire dal piccolo Enea Sala per continuare con la rabbiosa mamma di Barbara Ronchi e il dolente padre di Fausto Russo Alesi. Ma tutti meriterebbero una citazione: Maltese, Gifuni, Pierobon, Calabresi, Timi, Camatti, Teneggi), il film restituisce scena dopo scena la complessità di un rapporto di sudditanza ben più sfumato di quello servo-padrone, senza voler fare scelte ideologiche (da adulto Mortara restò testardamente cattolico) ma illuminando con intelligenza le profondità e le debolezze dell’animo umano».
Federico Gironi di ComingSoon rilancia ulteriormente il discorso, collocando il film all’interno dell’analisi storica tanto cara al regista. Scrive infatti il critico: «Rapito è l’ennesimo film in cui Bellocchio – ancora in quell’evidente stato di grazia in cui si trova da qualche anno a questa parte – si scaglia, forse non più con rabbia, ma di certo con grande potenza iconoclasta, contro le convenzioni e le ipocrisie del nostro paese e della nostra storia, e contro ogni forma di chiesa e di dogmatismo: qui non più l’aberrazione del terrorismo, mutazione perversa dell’ideologia comunista, ma la Chiesa con la “c” maiuscola, quella cattolica».
Gli fa seguito Aldo Spiniello che, per il sito Sentieri Selvaggi, insiste ulteriormente sulla questione affermando che, «dopo quello di Aldo Moro, Marco Bellocchio racconta un altro rapimento. Sì, certo, un caso molto meno eclatante e decisivo per le vicende italiane, ma non per questo meno tragico. Comunque, un altro affondo nei chiaroscuri della storia, in quella terra di mezzo sospesa tra i fatti accertati, documentati e le libere ipotesi dell’immaginazione. In ogni caso pur sempre di un rapimento si tratta, di una sottrazione forzata, di uno stato ambiguo di incertezza, paura, di legami spezzati e da ripensare. Un’altra sospensione, insomma. E che sia davvero questa ormai la condizione precisa del cinema di Bellocchio? L’essere un racconto del limbo, oltre il tumulto dei furori giovanili, ma in ogni caso lontano dalla beatitudine della visione divina, da un paradiso indefinitamente precluso. Il diavolo in corpo è ancora nel profondo e cova un tormento sottile, ma eterno».
Riflessione che viene proposta anche da Raffale Meale sulle pagine di Quinlan. Scrive così il critico: «come già Aldo Moro anche Edgardo Mortara viene rapito, e anche se in questo caso non si tratta di un atto eversivo ma di una delibera dell’ordine costituito non si può non pensare a un collegamento, un trait d’union, un punto d’incontro. Questo nuovo film di Bellocchio ragiona una volta di più sulla privazione della libertà non come atto solo ed esclusivamente fisico, e dunque ovviamente politico, ma come atto psicologico, che dunque rientra nel campo della mente e delle sue circonvoluzioni».
di Redazione