Il regno del pianeta delle scimmie

La recensione di Il regno del pianeta delle scimmie, di Wes Ball, a cura di Gianlorenzo Franzì.

Il franchise del Pianeta delle Scimmie non è solo uno dei più longevi della storia del grande schermo (e non solo, essendo anche sbarcato in tv con una serie animata), ma è anche una di quelle saghe che evolvendosi nel tempo ha saputo tenersi al passo con i tempi dal punto di vista visuale e insieme mantenere uno strato teorico sempre non indifferente.

Per questo, il prototipo del 1968 di Schaffner faceva scivolare il racconto originale (Viaggio a Soror, di Pierre Boulle) su discorsi attuali allora come ora tra ecologia e pericolosità del progresso scientifico, arrivando a girare uno dei finali più sconvolgenti dell’intera storia del cinema; Tim Burton, con il suo remake, affondava nella fondazione del mito unendo la favola all’orrore e ai personaggi esclusi tipici del suo cinema; mentre Rupert Wyatt, con il reboot del 2011, indagava sull’eugenetica.

In questo senso, Wes Ball aveva già fatto bene con il capitolo precedente, The War- Il Pianeta delle Scimmie, che ripescava l’avventura cinefila come dispositivo di identificazione con l’eroe (o antieroe) e come campo di riflessione filosofica post-apocalittica.

Peccato che invece con il suo The Kingdom faccia un passo avanti e uno indietro: perché porta la messa in scena ad un gradino più alto di spettacolarità, con al centro un personaggio centrale -la scimmia Noa- centrato e perfettamente efficace nel restituire le emotività delle scimmie come sineddoche, ma lascia ogni riflessione teorica ferma allo scontro evolutivo che è il nucleo del franchise, senza apporre niente di nuovo.

Dal punto di vista narrativo, inconsapevolmente o meno, Il Regno cerca invece di mettere un po’ di ordine: prima di tutto, dando coerenza alla saga inserendo ritmiche che ricalcano le splendide e stranianti musiche del film capostipite di Jerry Goldsmith, oltretutto su sequenze che guardano da vicinissimo alcune iconiche scene del film di Schaffner. E in questo senso, anche con l’apporto del nome Nova per la protagonista (esattamente lo stesso nome di Linda Harrison nel primissimo film) e quel finale lì, tutta la quadrilogia reboot sembra invece porsi come prequel alla pentalogia originaria.

Un film di passaggio, insomma: un’opera non trascurabile ma di certo dalla potenza smorzata.


di Wes Ball
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