Ricordati di me

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ricordatidimeLa TV e la Famiglia, un binomio che ormai non lascia scampo. In Ricordati di me, l’atteso film di Gabriele Muccino, la TV e la Famiglia sono due mondi speculari, invasivi, quasi sovrapposti, assolutamente congeniali. Da una parte la volgarità, la spazzatura, il vuoto, dall’altra l’afasia, le passioni senza più qualità, da una parte la frenesia di apparire comunque e insieme scomparire (la ripetitività e la standardizzazione dei modelli proposti), dall’altra la frustrazione, l’infelicità di chi non si accetta per come è, di chi non si stanca di allineare alibi (i doveri, le rinunce, i sacrifici) per giustificare qualsiasi suo fallimento. Alla fine “nessuno mai” si salva, sia chi arriva persino all’abiezione pur di fare la “velina” in uno spettacolo televisivo di quiz, sia chi continua ad autogratificarsi con sogni irrealizzabili e inconcludenti (un romanzo incompiuto nel cassetto, una carriera teatrale spezzata per poca voglia), sia i giovani, con l’ossessione unica di “emergere”, essere visti («ma tu come mi vedi» è il refrain che accompagna tutto il film), sia gli adulti sempre pronti a fuggire all’indietro, a cercare la salvezza in ciò che non è stato e forse non poteva essere. Insomma un bel pantano.

La TV piace perché fa vedere la gente comune, dice ad un certo punto un personaggio di Ricordati di me, e Muccino fa vedere proprio un bel campionario di gente comune, fino però ad esagerare, perché i suoi personaggi sono spesso stereotipi tagliati con l’accetta e lo sviluppo narrativo è meccanico e prevedibile, anzi quasi sempre ristagna a dispetto del ritmo frenetico con cui viene presentato. I protagonisti non fanno che ribadire le stesse domande e gli stessi errori; gli itinerari compiuti dai figli ripetono, magari con più cinismo, quelli dei genitori; e il luna park televisivo non è che l’espressione caramellosa e grottesca di una deriva generazionale che riguarda proprio tutti. Dopo tanto correre, dopo tante rivolte e frenesie, tra effimeri successi e riconciliazioni apparenti, il film alla fine è la rappresentazione di una impasse: la famiglia si ricompone per celebrare il Natale, ma tutti come sempre non vedono l’ora di andarsene via, e il padre continua a rifugiarsi nel cesso per telefonare all’amante.
E’ una impasse che stranamente assomiglia allo stile cinematografico di Muccino, impetuoso e smagliante, che alla fine lascia una sensazione di vuoto e indefinito. In più, un sospetto di vago razzismo intellettuale. Nella società rappresentata da Muccino sembra esserci spazio solo per personaggi sfigati o ossessi, volgari o sconfitti. Un mondo dove sembra impossibile coltivare un sogno che valga o, semplicemente, vivere un amore in modo adulto. Vogliamo sperare che non sia così.

Alla sua prova più matura Muccino si conferma regista di talento, portato alle scorciatoie. Tra gli attori, spiccano soprattutto le donne: Laura Morante, un’intensa Monica Bellucci, la sorprendente Nicoletta Romanoff. Delude invece Fabrizio Bentivoglio, come stordito e con un’unica espressione beata e assente, che non lascia neppure quando gli somministrano l’anestesia.

Piero Spila

Gruppo di famiglia in un inferno

Ricordati di me, l’ultimo attesissimo film di Gabriele Muccino si poteva anche intitolare “Gruppo di famiglia in un inferno”, perché narra un vero e proprio inferno emotivo, attraverso un documento antropologico che fotografa senza remore i valori tipici di una famiglia borghese italiana contemporanea.
Secondo Muccino siamo diventati più cinici, più superficiali, più nevrotici, più conformisti, più fragili. Individualisti, arroganti, incapaci di amare e tremendamente insicuri, sempre sospesi tra il disperato tentativo di piacere agli altri e il profondo disprezzo di sé stessi. L’unico valore che può miracolosamente salvarci da qualunque palude è il presunto successo, inteso come fama, perché con esso si spera anche di ricevere dagli altri la consapevolezza del proprio valore: credendo nel miraggio che, se le masse ci adoreranno, ci sentiremo più complete anche come persone. Però allo stesso tempo Muccino fotografa il vuoto in nome del nulla, perché anche i genitori, intellettuali e di sinistra, quando vedono che la figlia ottiene quello che vuole, cioè svendere il proprio corpo in tv da velina, dopo essersi prostituita all’uopo, la riconoscono come persona vincente. Non importa se per questo la giovane ha gettato alle ortiche ogni valore che riguarda il rispetto della propria dignità umana.

Valentina (Nicoletta Romanoff), è colei che, infatti, cercando ad ogni costo di diventare una velina, perché ha capito che la tv offre la strada più facile per affermarsi senza troppi sforzi, riesce a contagiare tutta la famiglia nella nevrosi di essere qualcuno. Prima la madre (Laura Morante), un’insegnante che un tempo voleva fare l’attrice e si innamora del regista (Gabriele Lavia) che le ha ridato fiducia, senza accorgersi che è gay. Poi il padre (Fabrizio Bentivoglio), un borghese di mezza età, con un romanzo nel cassetto, che ritrova la voglia di scrivere attraverso la passione con un’antica fidanzata (Monica Bellucci). Infine Paolo (Silvio Muccino, fratello minore del regista), che all’inizio sembra vivere solo i “normali” problemi di un adolescente, ma alla fine si lascia pure contagiare, sembrando disposto a qualunque compromesso pur di piacere ai compagni di scuola. Non a caso la frase-tormentone del film, che tutti prima o poi ripetono agli altri membri della famiglia, è “prima o poi vi farò vedere che cosa valgo”.

Muccino, oltre a documentare il cinismo contemporaneo, ci propone un “cinema della scenata”, della compressione delle nevrosi e della spremuta di emozioni, senza però offrire una via d’uscita ai personaggi, ovvero senza una degna risoluzione alle loro traiettorie: essi rimangono infatti sospesi nel loro vuoto emotivo, nella vana attesa che questo venga colmato dall’ansia di successo. E alla fine la morale borghese perbenista tutto appiana, tutto scusa, tutto omologa, in linea con i nostri tempi. Vedendo il film si pensa a capolavori come ‘Il sorpasso’ di Dino Risi e soprattutto a ‘Io la conoscevo bene’ di Pietrangeli ma, mentre questi, nonostante l’amara denuncia, contengono comunque una posizione etica degli autori che porta inevitabilmente a riflettere, la mancanza di giudizio di Muccino nei confronti di quello che racconta assimila il suo prodotto a una buona confezione televisiva. Cioè tutto quello che si narra, per quanto terribile, cinico o inaccettabile possa essere, risulta alla fine come un’inquietante apologia di quella stessa realtà.

Daniela Bisogni


di Piero Spila
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