Nosferatu

La recensione di Nosferatu, di Robert Eggers, a cura di Gianlorenzo Franzì.

Divisivo come tutti i grandi autori, specialmente quando rompono alcuni schemi predeterminati e ne costruiscono altri sulle macerie: Robert Eggers è riuscito a diventarlo con una manciata di film. Fin dal suo fulminante esordio, The Vvitch, era chiaro che per lui l’horror è una questione di stile: perché nonostante il piccolo deragliamento di The Northman, The Lighthouse confermava e preannunciava le ombre e gli orrori esistenziali di Nosferatu. Che inevitabilmente rilegge Herzog e Murnau attraverso le sue linee espressioniste ma nello stesso tempo si modernizza con un linguaggio postmoderno, citazionista, formalista, rielaborato. Il nuovo film di Eggers allora, come già Herzog, volge lo sguardo verso una società malata che può essere salvata solo dal sacrificio, pur con l’impressione che la sua sia una forma di euforia stilistica che si ferma sempre un passo prima dalla (re)invenzione.

Il regista è chiaramente, e magari giustamente, ossessionato da una sorta di filologia narrativa ed espressiva che sente palpabile nel momento in cui mette mano non solo ad un mito fondativo della letteratura soprattutto gotica -il vampiro-, ma anche ad un moloch cinematografico come il capolavoro assoluto di Murnau. Il problema sorge però quando si scontra con un immaginario talmente stratificato, talmente assoluto nella sua eterna modernità, da non permettere di stravolgere nulla, a meno che non ci sia una reale urgenza diversificatrice sotto.

Perde allora terreno anche con il secondo epigono, il binomio Herzog-Kinski.

Il vampiro del film di Eggers è sinuoso, terrificante, evanescente nella sua eleganza mortifera mentre striscia in una civiltà sull’orlo del collasso, predatore (in)naturale che assume le croci di un memento mori: ma non ha la forza di slegarsi dai suoi padri, dalle sue origini, dai suoi codici espressivi.

È per questo che il suo Nosferatu assume le forme sfuggevoli di un’ombra che ha paura della luce: da una parte fedeltà ai maestri della settima arte (anche Dreyer, anche Coppola), dall’altra paura di contraddire il materiale di base, da una parte la furia postmoderna di trovare un nuovo linguaggio, dall’altra l’indecisione di non sapere effettivamente cosa comunicare, con quel linguaggio.


di Gianlorenzo Franzì
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