Nessuno ti salverà
La recensione di Nessuno ti salverà, di Brian Duffield, a cura di Massimiliano Martiradonna.
Immaginare un mondo diverso da quello percepito. È una prerogativa del cinema horror. Suggestioni e visioni in cui non solo si sovverte il senso comune, per dirla alla Manzoni, ma anche i sensi comuni, proprio quelli lì: vista, udito, tatto, olfatto, gusto. Questo è comune nelle opere che raccontano il soprannaturale, l’oltremondo, quando esso è oltretomba. In questi casi si utilizza l’accentuazione di uno dei sensi, o addirittura un sesto senso: per vedere quello che gli altro non vedono, sentire suoni che altri non sentono, toccare per capire destino o futuro.
Spesso, tuttavia, l’oltremondo connota un’altra forma di vita extraterrestre, che non è demoniaca ma naturale, biologica, e interviene pericolosamente nella dimensione di realtà degli esseri umani. In questi casi, nei casi di alien invasion, privarsi più o meno volontariamente di un senso, non enfatizzarlo, può essere la chiave della salvezza. Si pensi ai recenti Nope o Bird Box, in cui non bisogna guardare gli alieni. Oppure A Quiet Place, in cui non bisogna parlare o produrre rumore per non farsi sentire da loro.
Di tutto questo è consapevole Brian Duffield, regista che approccia il genere in modo eccentrico e personale. Nel suo precedente e riuscitissimo Spontaneous, l’autore faceva proprie le suggestioni punk di Sion Sono e Takashi Miike e costruiva una storia esplosiva (letteralmente) sull’adolescenza inquieta in America. Ora, con Nessuno ti salverà, sale di fasce anagrafica ed inquadra la giovane Brynn, orfana, non più adolescente, turbata più che inquieta. Si comincia con la sua vezzosa solitaria vestizione, nell’assolato vecchio Sud americano. C’è subito qualcosa che non quadra: Brynn non parla. Non parla con gli altri del paese e gli altri non parlano con lei, ma c’è dell’altro: non parla nemmeno tra sé. Nemmeno una parola, un’imprecazione, un “f..k!” buttato giù tanto per gradire.
Questo atterrisce lo spettatore ben oltre la soglia di incredulità: è evidente, se Brynn non parla, è il regista che parla. Duffield cioè decide di fare un’opera sperimentale, programmatica, in cui mettere al centro immagini e suoni, sottraendosi alla dittatura del dialogo e con esso alla dittatura dello spiegone. È infatti troppo frequente, nel cinema contemporaneo, un uso ipertrofico delle battute, oltre ogni ragionevole necessità di sceneggiatura, e forte è il sospetto che questa sovrabbondanza serva a sedare lo spettatore, a blandirlo, ad annientarne immaginazione e autonomia di giudizio. Insomma, per Duffield il non detto è di importanza vitale nella relazione tra film e pubblico, almeno quanto il fuoricampo. La premessa di valore può essere difficile da accettare, ma merita la massima attenzione. Il vuoto lasciato dal parlato viene riempito, si diceva, da immagini e suoni.
Nessuno ti salverà narra di un alien invasion, quindi Duffield mostra subito, e copiosamente, gli alieni. Sono alieni vintage per così dire, simili a quelli della fantascienza dell’età dell’oro, con innesti giurassici a la Spielberg. Nemmeno loro parlano, ma comunicano con un linguaggio di suoni e segni strambo eppure molto efficace. Piombano in casa di Brynn, aliena pure lei, o piuttosto alienata, avulsa dal suo contesto sociale, nella sua casa di campagna. Lei riesce inizialmente a respingerli, i suoi ostili compaesani no, ne vengono soggiogati. Il marchio della schiavitù è un organismo parassita aracniforme che si incunea, manco a dirlo, tra le corde vocali, privando l’umano suo ospite della parola, e della volontà.
Il paesello del Sud diventa così una comunità di ultracorpi, e se lei prima era alienata, ora è l’intrusa che resiste, va piegata o eliminata. Umanoidi ed extraterrestri la braccano ovunque, fin dentro la sua solitaria comfort zone domestica, piena zeppa di case di bambola, e foto di una bambinanza e di una sorellanza che fu. La cattura avviene e pare un epilogo implausibile, invece è un detour necessario, serve a capire le ragioni dell’invasione aliena, e attraverso esse le ragioni di questo “mutismo selettivo” della ragazza. Gli alieni sono investigatori dell’incubo, anzi dell’inconscio, e lì in fondo al cuore, ingombrante come un parassita ragno, Brynn ha un gigantesco trauma.
Il film si chiama Nessuno ti salverà, ma è una provocazione, dal momento che gli uomini verdi sembrano salvare la ragazza da sé, costruiscono un mondo a misura delle sua casa di bambole, in un tempo che non è quello che lei ha mai esperito realmente, in una dimensione onirica o reale non è dato sapere, ma facendo in modo che Brynn, finalmente, si percepisca – ancora i sensi – serena, compresa, inclusa, assolta. Intatta, in mezzo ad una collettività di colonizzati. Ma un mondo a misura di individuo, vero o verosimile che sia, è un mondo di monadi, di alienati appunto, è l’ennesimo trionfo di questo avantpostcapitalismo, ora anche sci-fi, è la fine di ogni possibile società occidentale. Del resto, la sottrazione della parola è un attentato al logos, alle fondamenta stesse della società.
Può sembrare una conclusione drastica questa, il fatto è che il film va in direzione ostinata e contraria rispetto alla più recente teoria sul significato dell’invasione degli ultracorpi, postulata da Quentin Tarantino nel suo saggio Cinema Speculation: gli ultracorpi sono rinati con un intelletto acuto, con il completo possesso della memoria e delle capacità, ma alleggeriti dalle disordinate emozioni umane. Possiedono anche una fedeltà completa verso i simili e un impegno totale per la sopravvivenza della specie. Sono disumani? Certo, sono vegetali. Ma i film cercano di presentare la loro mancanza di umanità come prova di una qualche malvagità profonda. Questo è un punto di vista piuttosto incentrato sulla specie. Come esseri umani potrebbero essere le nostre emozioni a renderci umani, ma è esagerato dire che sono ciò che ci rende grandi. Insieme a quelle emozioni positive – amore, gioia, felicità, divertimento – arrivano emozioni negative – odio, egoismo, razzismo, depressione, violenza e rabbia… Da qui, Tarantino arriva ad asserire che gli ultracorpi sarebbero metafora di una società collettivizzata, socialista, apatica forse, eppure empatica. Gli ultracorpi di Duffield restano invece organici ad una percezione individuale, sono insomma come tu li vuoi, o loro li vogliono. E specchiarsi nel loro mondo da casa di bambola e nei loro sorrisi di ghiaccio fa scoprire la Brynn che c’è in ognuno di noi.
di Massimiliano Martiradonna