La moglie di Tchaikovsky

La recensione di La moglie di Tchaikovsky, di Kirill Serebrennikov, a cura di Guido Reverdito.

18 luglio 1877: il trentasettenne e già famosissimo in patria Pëtr Il’ic Tchaikovsky accetta di sposare Antonina Ivanova Miljiukova, sua ex alunna al Conservatorio, dopo essere stato tempestato di lettere appassionate con cui la giovane donna gli comunicava il proprio travolgente amore e dichiarava di voler dedicare tutta se stessa a una sorta di culto devoto dell’uomo che l’aveva stregata. Per Tchaikovsky poteva essere l’occasione d’oro per mettere a tacere i troppi sussurri e grida che da tempo circolavano sul suo conto, nascondendo così in maniera più che ufficiale quell’omosessualità (ormai nota ai più) che la retriva e opprimente società zarista faceva fatica a tollerare anche in personaggi in vista sfruttandoli come icone e simboli della cultura russa in giro per i salotti bene dell’Europa dei potenti.

Ma già dopo un mese di difficile convivenza apparve più che chiara l’enormità dell’errore commesso. Il compositore fuggì a Mosca abbandonando la neosposa, che – dal canto suo – non solo rifiutò di accettare la proposta di divorzio offertale in più di un’occasione nel corso degli anni, ma che si intestardì a perseverare nella propria ossessione sentimentale. Finendo in un vortice di degrado progressivo che la portò a trascorrere in manicomio gli ultimi vent’anni di un’esistenza costellata di disgrazie a catena.

Fin qui la Storia. Quella vera. Che Kirill Serebrennikov ha travasato (rileggendola con la lente volutamente deformante di chi voglia parlare del presente usando vicende del passato) nella sceneggiatura di questo suo ottavo lungometraggio, presentato in concorso a Cannes e destinato a far molto discutere. Soprattutto in patria. Se e mai il pubblico russo avrà modo di vederlo. Visto e considerato che Serebrennikov, russo di madre ucraina, gay dichiarato nonché attivista LGBTQ da anni in esilio dopo essere stato a lungo agli arresti domiciliari, è uno degli intellettuali dissidenti più fastidiosi per il regime putiniano.

Chi debba pensare a una nuova biografia del grande compositore russo sappia però di essere del tutto fuori strada. La tormentata vicenda di Tchaikovsky era infatti già al centro de L’altra faccia dell’amore, il biopic allucinato e dissacratorio che Ken Russel dedicò alla vita e all’autodistruzione di un genio naufragato negli abissi di una depressione rovinosa.

Il titolo la dice lunga a questo proposito perché è più che una dichiarazione di intenti. Le quasi due ore e mezza di pellicola sono infatti interamente dedicate a ripercorrere la parabola fatale di un’ossessione d’amore al centro della quale giganteggia la triste figura di Antonina Ivanova (cui presta anima e corpo una superba Ekaterina Ermishina). Una giovane che vive sulla propria pelle la fatica esistenziale di essere donna in una società morbosamente patriarcale in cui le donne erano relegate ai margini di tutto, ridotte al rango di oggetti di cui gli uomini potevano disporre a proprio piacimento.

Ed è in questo che il film di Serebrennikov mostra quella carica politica che in molti si sarebbero aspettati da un regista con il suo pedigree. Ma politico non nel senso retrivo di uno sfruttamento propagandistico e urlato di vicende del lontano passato contro il regime che l’autore attacca con un manifesto a tesi. Politico perché raccontando l’ipocrisia della società zarista e la sua insofferenza nei confronti della diversità sessuale, chiede al pubblico in sala di riflettere non solo sulla condizione della donna in universi dei giorni nostri in cui è ancora un protagonista subalterno sottomesso al potere del maschio, ma anche su un paese – la Russia del putinismo più retrivo incarnato da personaggi del calibro del patriarca di Mosca Kirill – che dell’insofferenza nei confronti di ogni diversità e nella repressione di ogni dissenso ha fatto una vera e propria bandiera.  


di Guido Reverdito
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