I dannati

La recensione di I dannati, di Roberto Minervini, a cura di Marco Lombardi.

Può sembrare facile e furbo, per il cinema, puntare il dito contro le guerre in un periodo storico come il nostro, ma c’è modo e modo di farlo. I dannati ne sceglie uno universale, e metafisico, che permette di andare oltre la mera violenza, invece riflettendo sui suoi fuori campo, a partire dal nonsenso e dai vuoti che genera.

È così che durante la guerra civile americana un manipolo di nordisti s’inoltra all’interno di una (metaforica) zona non descritta dalle mappe, che altro non è se non il tentativo di entrare dentro la dimensione delle domande senza risposta, tutte incentrate sulle identità private (il lavoro e la famiglia) in luogo delle consuete dimensioni pubbliche (lo stato e la giustizia). Spesso ci sembra di essere all’interno di un (sempre eterno) deserto dei Tartari, ma qualche volta il “nemico” appare sotto forma di proiettili che giungono dal mezzo del nulla, oppure di cavalli in marcia, ripresi in campo lungo e pure nascosti da una serie di alberi, quasi fossero dei fotogrammi isolati e inframmezzati dai pensieri di chi combatte.

Il finale, in cui i soldati si fermano a prendere la neve che cade sui loro visi fino a ghiacciarsi sulle barbe, a dare l’idea del tempo che passa, trova il suo climax nella frase di un soldato che esclamando “Che pace…” ci fa ancora una volta capire quanto i conflitti siano più uno stato dell’anima, che del corpo.


di Marco Lombardi
Condividi

di Marco Lombardi
Condividi