Malavoglia

A veder uscire nelle sale un film dal titolo Malavoglia, si scatena immediato il desiderio di confrontare il lavoro con il romanzo verghiano e con il precedente La terra trema di Luchino Visconti. E in effetti è quanto stato fatto dalla critica, che, nel complesso, non si è mostrata né morbida né generosa con questa pellicola per la regia di Pasquale Scimeca. Ci si potrebbe infatti domandare dove siano finiti i celebri lupini, perché non si parli del servizio di leva del giovane ‘Ntoni o del fratello Luca; soprattutto perché si decida di dare un taglio netto alle disgrazie dei Toscano, abbuonando loro una larga fetta di risvolti tragici del destino: Lia che diventa prostituta, ‘Ntoni che finisce in prigione o la morte di Maruzza o di Padron ‘Ntoni… Ma questo in fondo non è che il passaggio tra il verismo e il vero, come a dire che la realtà è già abbastanza oscura per accentuarne le tinte fosche. Non stiamo perciò qui a valutare il quantitativo di discrepanze o di innovazioni, ma a presentare l’effetto che queste fanno allo spettatore che intenda osservarle in sé. Si tratta di uno dei rarissimi casi in cui si può presumere nel pubblico una certa conoscenza, a livello scolastico, del romanzo, cioè del testo da cui è liberamente tratto il film, per cui ci si può permettere più agevolmente di allontanarsene.
Le descrizioni, i rallentamenti narrativi, una certa voluta pesantezza di ritmo che nel romanzo conferivano alla routine di Aci Trezza il gravame del portare avanti la baracca, nel film vengono sostituite dai piani sequenza in cui un’unica inquadratura racconta la varietà di sfumature al suo interno, come l’indugiare entro la casa del Nespolo, nelle camere connotate da una semplicità estrema, o soprattutto sulla spiaggia.
Eccoci quindi di fronte il mare affascinante e impietoso, le cui onde irte di schiuma si ergono ad arbitre del loro destino, in una scena imponente in cui i diversi protagonisti ripresi da dietro o di profilo guardano da riva la tempesta, perdendo minuto dopo minuto la speranza; sul volto riccioluto di ‘Ntoni si riassume la vicenda come l’ha voluta interpretare il regista: la ribellione e la necessità di riscatto convivono all’ombra dei valori famigliari. E se la realtà non fa sconti, è tuttavia l’interno della casa che fornisce la chiave dei segreti della famiglia verghiana: gli affetti sembrano la vera ricchezza, in nome della quale la sapienza e la storia personale hanno la meglio sulle sconfitte contingenti. Colpisce nella rappresentazione del quotidiano quell’affetto che si rende briciole di attenzioni, ora alla sorella, ora al nonno, ora alla madre; è soprattutto Mena (che sa essere simpatica ma anche affascinante, specie nella scena audace della danza del ventre) a farsi riferimento, contrafforte per le sorti della casa del Nespolo; ma a guardare e salvaguardare la casa c’è l’occhio di Padron ‘Ntoni, un volto su cui le rughe marcano una saggezza fatta di azioni e di rielaborazioni delle stesse, congelate per sempre nei proverbi. Poco cambia che invece di Aci Trezza la vicenda si svolga a Porto Palo: la scelta degli interpreti si rivela azzeccata, per l’aria arruffata e ribelle di Antonio Curcia (già interprete, così come altri, per la regia sempre di Scimeca, in “Rosso Malpelo”), per lo sguardo sapiente e quasi bloccato in un passato indefinito di Giuseppe Firullo (Padron ‘Ntoni); per l’intensità nella rassegnazione e nell’alienazione da dolore di Doriana La Fauci (Maruzza), per la maternità istintiva di Elena Ghezzi (Mena), che ci rende più simpatico e rassicurante il personaggio verghiano che doveva sempre accasarsi…
Il punto cruciale del film è la risonanza umana delle disgrazie che colpiscono gli umili, quelli che, come si dice nella prefazione di Verga, ripresa all’inizio del film, rimangono calpestati e ignorati dalla storia. La storia diviene così la descrizione di una famiglia patriarcale povera, che resiste al tempo e alle intemperie, minata non soltanto dagli agenti atmosferici (ed è già molto, considerando che la loro fonte di reddito è rappresentata dalla barca Provvidenza), ma dalle tentazioni dei giovani verso la droga, verso l’emigrazione, i guadagni che promettono le emittenti radio o televisive. Tale è infatti il giovane ‘Ntoni, per cui non disturba il finale con cui riesce a riscattarsi grazie a un’idea brillante, quella di rielaborare in canzone rap la serie dei proverbi continuamente ripetuti, quasi in una cantilena esistenziale, dal nonno.
di Redazione