Laggiù qualcuno mi ama

La recensione di Ignazio Senatore e la rassegna stampa a cura di Francesco Grieco per il film di Martone, Film della Critica per l'SNCCI.

Laggiù qualcuno mi ama

Laggiù qualcuno mi ama di Mario Martone, distribuito da Medusa Film e Vision Distribution, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI) con la seguente motivazione:

«Martone, raccontando di Massimo Troisi, non può che parlare anche di se stesso, del suo cinema, della sua Napoli, in un film-saggio che ha il passo sia della critica cinematografica più fertile, con suggestive ipotesi di lettura, sia del cuore pulsante dell’opera e della vita del grande attore e regista napoletano».

La recensione
di Ignazio Senatore

«Massimo Troisi era un attore amatissimo, e non solo da noi napoletani, ma per me non era solo un grande attore e un grande comico, era un regista di speciale grandezza, i cui film costituivano, a mio avviso, un unico discorso cinematografico. Un cinema che si esprimeva per frammenti, per soprassalti improvvisi, alternava pieni e vuoti, ora era acceso, ora stanco. Il cinema di Troisi era bello perché aveva la forma della vita». È questo l’incipit del documentario il cui titolo richiama, inevitabilmente, Lassù qualcuno mi ama (1956) di Robert Wise, scelto, invece, probabilmente, per sottolineare come Troisi fosse entrato nel cuore degli spettatori per quel suo senso di perenne incertezza, spaesamento e fragilità, diventato nel tempo la sua marca di riconoscimento.

Dopo aver omaggiato Eduardo De Filippo (Il sindaco del rione Sanità), Eduardo Scarpetta (Qui rido io) ed Ermanno Rea (Nostalgia), Martone continua ad immergersi nella sua Napoli, rendendo tributo ad uno degli attori più amati del cinema italiano degli ultimi decenni. Martone azzarda un paragone tra Troisi e l’Antoine Doinel, di truffautiana memoria, e lascia che il tema dell’amore, declinato con sfumature diverse in tutti i film dell’attore-regista di San Giorgio a Cremano, faccia da fil rouge e leghi le interviste a: Francesco Piccolo, Goffredo Fofi, Paolo Sorrentino, Ficarra e Picone, i critici Federico Chiacchiari e Demetrio Salvi (autori del primo e unico saggio dedicato a Troisi quando era ancora in vita), Michael Radford, regista dell’indimenticabile Il postino, e Roberto Perpignani.

Non mancano le sorprese; su tutte la voce di Troisi incisa su un nastro magnetico, che in una sorta di seduta psicoanalitica, con Anna Pavignano (compagna e co-sceneggiatrice dei film di Troisi) e una sua amica in veste di terapeute, si racconta con la proverbiale onestà e sincerità. Non meno evocativi gli spunti e le riflessioni che lo stesso Troisi aveva appuntato, in ordine sparso, su dei fogli di quaderno, custoditi gelosamente da Pavignano. Arricchito da filmati di repertorio (nei quali compaiono, tra gli altri, Dario Fo e Giuseppe Bertolucci) e da tantissime scene tratte dai film dell’attore-regista, il doc ti avvolge e ti lascia l’amaro in bocca perché, prendendo spunto da una poesia di Troisi, ricorda come la morte, nel suo caso, abbia troppo presto scalzato via la sorte.

Una breve rassegna della stampa italiana sul film
(a cura di Francesco Grieco)

Complessivamente positivi i giudizi della stampa italiana sul film che Mario Martone ha dedicato a Massimo Troisi. Riferendosi a Martone, Emiliano Morreale su FilmTv scrive: «perfettamente a suo agio con la materia (le due ore di durata volano), trova soprattutto la perfetta temperatura, l’intreccio tra intelligenza interpretativa e una trattenuta commozione nello sguardo rivolto indietro». Federico Pedroni sul sito di Cineforum: «lo sguardo è sempre curioso, mai banale, pronto a cogliere in ogni sequenza il lampo di genio, l’intuizione registica, il tempo attoriale». Cristina Piccino sul Manifesto: «è la vitalità di Troisi, la sua meraviglia, la sua energia che Martone sa restituire, mettendosi all’ascolto e provando a cogliere dei punti in comune». Per Anna Maria Pasetti sul Fatto Quotidiano il film è «un’opera meta-artistica che compenetra due sguardi dentro a un’appartenenza culturale condivisa, ma anche a un’idea di cinema che equivale a una Visione-di-mondo, a una “forma della vita”». Esattamente l’idea del mondo e l’idea del cinema che François Truffaut cercava nei “film della sua vita”.

Ed è proprio a Truffaut che Martone paragona Troisi. Questo confronto tra due autori e due personaggi apparentemente lontani tra loro viene preso in considerazione in molte delle recensioni dei critici italiani, la maggior parte dei quali condividono con convinzione l’accostamento. Leggiamo, per esempio, Piera Detassis sul sito di Elle: «Massimo come Doinel si guardava crescere, con indolenza». Federico Gironi su Comingsoon: «basterebbe la parte iniziale, in fin dei conti, per constatare il valore di Laggiù qualcuno mi ama. Basterebbe raccontare l’intuizione di Martone – già ghezziana, forse, ma non è questo il punto – di mettere assieme Massimo Troisi e François Truffaut. E basterebbe vedere il modo in cui Martone, nel tradurla in film, affiancando immagini a immagini, fa del suo documentario un vero e proprio video-saggio». Marco Grosoli sugli Spietati: «il film comincia enunciando l’ipotesi, ardita ma di inequivocabile riscontro, che Troisi fu per l’Italia ciò che Antoine Doinel, insieme al ciclo di film che François Truffaut gli dedicò, fu per la nouvelle vague francese: l’epitome più compiuta della modernità cinematografica, l’immagine di un soggetto aperto, franto, indeciso, incompiuto, espressa attraverso il racconto dell’amore che sfuma nel racconto della vita e viceversa (e in questo sfumare identifica il suo potenziale politico), nonché attraverso un rinnovamento radicale della strumentazione recitativa». O Massimo Causo su Duels: «Laggiù qualcuno mi ama materializza insomma un tema troisiano concreto, dà forma a una poetica ma anche a una linea caratteriale: il parallelo con la nouvelle vague, con i suoi personaggi frenetici ma anche incerti nei loro travolgenti amori, l’insicurezza dell’innamoramento, l’insistenza sul tema della morte, la modernità assoluta delle figure femminili».

Di parere contrario sulla Repubblica Alberto Crespi, che entra così nel dettaglio del film: «pregevolissimo il montaggio iniziale, nel quale cinema e teatro “nascono” dalla realtà napoletana degli anni 70; meno convincente il paragone con Truffaut (Troisi Come Antoine Doinel, l’alter ego del regista francese?), che vorrebbe nobilitare un talento già nobilissimo di suo». Invece afferma Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera: «paragone forse sorprendente ma quando si vedono certe similitudini e certe “citazioni” (i giochi con le mani dell’Antoine Doinel dei 400 colpi e quelli di Troisi; l’uso in certe scene dove non te lo aspetti della corsa) viene da battersi una mano sulla fronte e chiedersi come mai non fosse venuto in mente a nessuno prima». Il critico lombardo aggiunge, per quanto riguarda Troisi: «Martone si limita alla sua carriera pubblica, prima recuperando una serie di sketch degli inizi, con Lello Arena e Enzo Decaro ma anche con Valeria Pezza (suo il ricordo esilarante del libro su Kandinskij) e Peppe Borrelli e poi analizzando i film con un’abbondanza di repertorio inedita per gli standard italiani (regalando così una perfetta antologia delle sue gag più celebri)».

Sull’uso che Martone fa delle immagini, Raffaele Meale si pronuncia così su Quinlan: «lo schema documentario può apparire canonico, con la giustapposizione di materiale d’archivio (ricchissimo, e anche sorprendentemente inedito, come testimoniano ad esempio gli appunti di Troisi e la sua agenda) e testimonianze di chi ha conosciuto, ammirato, studiato il cinema di Troisi». Ma in particolare, Meale definisce «evocativo, e sublime nella sua netta semplicità l’accostamento di montaggio tra un palazzo “sgarrupato” della Napoli odierna e la sequenza d’apertura di Ricomincio da tre». Come spiega Giancarlo Zappoli su MYmovies, alludendo al titolo del documentario: «quel laggiù è un avverbio di luogo che per molti si identificava con Napoli e che invece Massimo voleva allargare a una condizione di disagio esistenziale che poteva prendere le mosse da Napoli (anzi da San Giorgio a Cremano come teneva a puntualizzare) per allargarsi a un’intera generazione ed andare oltre». Concludiamo con Pietro Masciullo su Sentieri Selvaggi: «dai movimenti di piazza al terremoto del 1980, dagli esordi televisivi a quelli cinematografici, il film di Martone assorbe e riarticola ogni nuova frontiera del video-saggio in un montaggio folgorante che apre l’orizzonte ermeneutico delle immagini facendole rivivere nel nostro 2023».


di Redazione
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