Storia e storie al cinema

Un excursus di Mariella Cruciani sui titoli che hanno definito i caratteri del film "storico" nel cinema italiano.

Quo vadis? (1913)

«Quale che sia il nostro desiderio di cogliere la realtà del passato, non possiamo fare altro che ricorrere al linguaggio della nostra epoca.» (Jean Starobinski)

Partiamo da un’ovvietà: non basta che una pellicola sia ambientata in un periodo diverso dal presente, per farne un film storico. Può capitare, invece, che scenografie e costumi d’epoca, anziché contribuire a stabilire un rapporto con la Storia, finiscano per rivelarsi mera cornice esteriore o, nel peggiore dei casi, orpello.

Il film “storico” in Italia, dopo La presa di Roma (1905) del pioniere Filoteo Alberini, nasce così: come film in costume, con ricostruzioni mastodontiche della storia antica, con i cristiani gettati ai leoni e con l’incendio di una Roma fatta di stucco e compensato – Quo vadis? (1913) di Enrico Guazzoni. Un’analoga messa in scena viene ripresa ai tempi del fascismo trionfante: si pensi, per esempio, a Scipione l’Africano (1937) di Carmine Gallone.

Inaugurato da 1860 (1933)di Alessandro Blasetti, si afferma poi uno sporadico filone risorgimentale, con pellicole come Piccolo mondo antico (1941) di Mario Soldati o Un garibaldino al convento (1942) di Vittorio De Sica. Naturalmente, nel quadro di questi film, meritano un posto a sé stante i due grandi affreschi di Luchino Visconti: Senso (1954) e Il gattopardo (1963).

Risorgimento a parte, però, il senso della Storia entra da protagonista nel cinema, insieme alla recuperata libertà, solo con le asciutte cronache del già citato De Sica e di Roberto Rossellini. È, in modo particolare, con quest’ultimo che il film storico diviene film del presente: La presa del potere da parte di Luigi XIV (1966) rappresenta, senz’altro, un classico nella demistificazione di “certa” storia.

Strada facendo, il film storico finisce per fornire sempre più elementi di contatto con il contesto che lo ha prodotto e meno con l’argomento di cui tratta: esemplare, in questo senso, San Michele aveva un gallo (prodotto nel 1972, uscito nel 1976) di Paolo e Vittorio Taviani, uno straordinario apologo sul conflitto tra due modi di intendere la rivoluzione, quello anarchico e quello marxista. Da non dimenticare, in quegli anni, anche Bronte – Cronaca di un massacro cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (1972) di Florestano Vancini: centocinquanta persone vengono arbitrariamente arrestate, processate in modo sommario e fucilate per ordine di Nino Bixio.

Man mano che il passato raffigurato si avvicina al presente, il discorso si fa più cupo e, passando attraverso i capolavori pessimisti di Pier Paolo Pasolini – Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) – e di Elio Petri – Todo modo (1976) -, si arriva agli anni Ottanta, il decennio della globalizzazione, di Rambo e Conan, degli yuppies.

La fine delle grandi idealità collettive, politiche e religiose, è ben incarnata dal Don Giulio di La Messa è finita (1985) di Nanni Moretti e, ancor di più, dal deputato comunista colpito da amnesia nel successivo Palombella rossa (1989). Per gli anni Novanta, emblematico è, invece, il cinema di Gianni Amelio, con l’asciutta messa in scena del Ladro di bambini (1992) e l’epopea di Lamerica (1994).

Tra i film storici, dal 2000 in poi, ricordiamo, in ordine sparso: Gostanza da Libbiano (2000) di Paolo Benvenuti, Il mestiere delle armi (2001) di Ermanno Olmi, La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana, Il resto di niente (2004) di Antonietta De Lillo, La masseria delle allodole (2007) dei fratelli Taviani, I demoni di San Pietroburgo (2008) di Giuliano Montaldo, Vincere (2009) di Marco Bellocchio, Noi credevamo (2010) di Mario Martone, Belluscone – Una storia siciliana (2014) di Franco Maresco, Martin Eden (2019) di Pietro Marcello, Hammamet (2020) di Gianni Amelio.

Alla fine di questo eterogeneo e sommario excursus, si evince che fatti e personaggi del passato rivivono sullo schermo in maniera significativa solo se si assume la prospettiva dell’oggi. In altri termini, l’autore di un film storico – degno di questo nome – deve farsi contemporaneo degli avvenimenti che narra e filtrarli attraverso la propria sensibilità e la propria visione del mondo.

Un cineasta può permettersi un privilegio non concesso allo storico: può reinventare la storia e liberarsi dal reale, senza per questo tradire l’accaduto. In questo genere di film, ciò che conta non è tanto il grado di verità storica o la validità dal punto di vista storiografico quanto, piuttosto, la visione critica complessiva – dell’uomo e della società – che ha il regista.

Per questo, la finzione e/o l’introduzione di personaggi che non sono esistiti realmente, lungi dall’allontanare l’impressione di realtà, possono contribuire ad illuminare problematiche complesse o delineare prospettive inattese. Per intenderci: La dolce vita (1960) di Fellini, l’opera tutta di Bellocchio – da I pugni in tasca (1965) fino al recente Esterno notte (2022) -, Il caimano (2006) di Moretti, Il divo (2008) di Sorrentino sono, certamente, opere “storiche” più di Camicie rosse (1952) di Goffredo Alessandrini e Francesco Rosi.

Sfondi e costumi, da soli, non significano nulla: affinché si dia Storia, ogni cineasta deve mobilitare la propria immaginazione per raccontare una parte del vero o dell’essenziale dei fatti in esame e rendere, così, il passato vitale e intelligibile sia a chi ha vissuto quegli avvenimenti, sia a chi ne sente parlare per la prima volta.

Per gli autori fin qui considerati, senza alcuna pretesa di catalogazione o di esaustività, lo spettatore non è mai un soggetto passivo a cui vendere un “prodotto”, bensì un complice da coinvolgere in un discorso che riguarda SEMPRE – anche quando vengono narrate vicende remotissime – il presente.

E i critici? In quest’ottica, “leggere” un film – per utilizzare il verbo coniato da Guido Aristarco nell’immediato dopoguerra – significa, in qualche modo, ri-scriverlo, ottemperanti al suo essere irriducibile ad una verità, alla sua apertura incomprimibile, al suo essere “plurale”. Particolari forme di critica non sono “la” critica, che può e deve assommarle tutte!


di Mariella Cruciani
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