L’uomo di argilla
La recensione di L'uomo di argilla, di Anaïs Tellenne, a cura di Emanuele Di Nicola.

Non c’è niente di più oscuro della fiaba. Ma anche di catartico, di edificante – letterale: che costruisce qualcosa -, a suo modo di luminoso. E il gesto di costruire è fondativo de L’uomo di argilla, esordio della regista francese Anaïs Tellenne, presentato a Venezia in Orizzonti Extra, che arriva nelle sale italiane dal 13 febbraio distribuito da Satine Film. Raphaël (Raphaël Thiéry) è un uomo adulto, con un fisico possente e una benda che gli copre l’occhio mancante; vive in una piccola casa con la madre vicino al maniero di cui è custode, viene completamente dominato dall’anziana donna che detta i suoi ritmi e gli riserva il suo cinismo. Al netto di ciò, la sua vita si consuma nella routine tra la caccia alle talpe e i rapidi incontri sessuali con una donna che fa la postina, consumati nelle fronde del bosco. Tutto cambia quando arriva la ricca Garance (Emmanuelle Devos) per alloggiare nella dimora: anch’essa una donna matura, un’artista, pittrice e scultrice che sta preparando la prossima esibizione e per questo cerca riparo nel luogo isolato. Raphaël accoglie Garance e gradualmente s’insinua tra loro un rapporto particolare: lei chiede a lui di essere la sua musa, proprio per l’aspetto particolare, lui accetta e lei comincia a modellare una statua d’argilla.
L’archetipo della Bella e la Bestia suona come riferimento immediato, certo, ma la situazione si fa più complessa. Raphaël infatti non è mai stato visto, è stato solo guardato, sminuito per prima dalla mamma a causa della sua presunta ripugnanza, che però è solo teorica allo sguardo dell’artista per cui ciò che è “brutto” diventa interessante. “Sono un paesaggio”, ripete l’uomo dopo le prime sessioni. Ed è vero: nella straordinaria fisicità dell’attore risiede una vera e propria cartografia, che il film rivela lentamente, con una spogliazione progressiva che lo lascerà nudo e infine ricoperto d’argilla in una paradossale coincidenza tra modello e opera.
Ma cosa resta dell’ispirazione, del corpo a cui l’artista guarda, una volta che l’opera è conclusa? Cosa rimane di Garance e Raphaël terminata la scultura? È l’altro punto cieco che il racconto indaga, poiché il breve incontro tra i due è destinato a concludersi alla fine del reciproco scambio, la scintilla per la donna e l’ipotesi di amore per l’uomo. Il quale, finalmente considerato, in una scena centrale arriva a “provare” un nuovo occhio, ritagliandolo da un catalogo e incollandolo sull’orbita vuota, in modo tanto inquietante quanto struggente. Se qualcuno ti vede anche tu ti “rivedi”, finisci per riconsiderare te stesso e riformare la tua auto-scrittura, ciò a cui ti hanno abituaot. Anaïs Tellenne adotta un approccio rigoroso e a tratti frontale, alla maniera delle fiabe deoliveiriane di Catherine Breillat come La belle endormie, che viene però spaccato da improvvise esplosioni di sentimento, come avviene nel prefinale. Incontro, confronto e conoscenza tra figure agli antipodi; metamorfosi del brutto che diventa bello nell’occhio di chi guarda; riflessione sull’arte e su chi la realizza; schema classico della favola rivisto alla luce del presente: tutto ciò si riversa ne L’uomo di argilla ma c’è anche qualcos’altro, qualcosa che sfugge e resta nell’aria, impalpabile, forse è il profumo della fiaba.

di Emanuele Di Nicola