L’ultima volta che siamo stati bambini

La recensione di L'ultima volta che siamo stati bambini, di Claudio Bisio, a cura di Guido Reverdito.

Esordio col botto (almeno in parte). Dopo quarant’anni di successi sul palco – prima cabaret, poi tanta TV e teatro con la T maiuscola – e dietro la macchina da presa, anche a Claudio Bisio è venuta la voglia di vedere che effetto faccia stare dall’altra parte della barricata.

Ma per la sua prima da regista il comico milanese ha scelto una sfida non da poco: e cioè dirigere quattro attori bambini calandoli nella Roma dell’autunno del 1943. Il che voleva dire misurarsi con tematiche a dir poco sdrucciolevoli come la Shoah, il Fascismo e l’applicazione delle leggi sulla razza, ma soprattutto la guerra (quella vera che stava trascinando verso l’abisso l’Italia mussoliniana e quella simulata che è il gioco di riflesso dei quattro piccoli protagonisti della pellicola).

Quattro bambini che sono il bignami antropologico e culturale della società di quei tragici giorni del ‘43: il figlio di un gerarca imbottito di retorica fascistoide dotato di fratello eroe di guerra, un’orfana con coraggio da vendere, uno col padre al confino e fame atavica, ma soprattutto il rampollo di una famiglia ebrea della piccola borghesia romana.

Il gruppo eterogeneo inganna il tempo giocando alla guerra. Ma quando Riccardo, l’ebreo biondo che non si sente diverso dagli altri nonostante i lazzi razzisti che deve ingoiare, scompare insieme a più di 1000 ebrei trasferiti ad Auschwitz a seguito del famigerato rastrellamento del ghetto di Roma il 16 ottobre, i tre amici – ignari della sua sorte – decidono di andare a cercarlo per convincere i nazisti a liberarlo.

Da quel momento in poi, con la Storia dei grandi (incarnata dalla strana coppia del fratello del balilla e di una giovane suora dell’orfanotrofio partiti a loro volta sulle tracce dei tre bambini scomparsi) che si va a sovrapporre drammaticamente a quella dei piccoli, il film prende la piega del road movie con toni sospesi tra la fiaba per un’infanzia matura e l’ansia di usare il cinema come strumento di didattica per le giovani generazioni che ignorano il passato del proprio paese.

Tratto dal romanzo omonimo di Fabio Bartolomei e accolto con grande entusiasmo al Giffoni Film Festival (dove era il titolo di apertura), l’esordio di Claudio Bisio alla regia è una scommessa vinta perché riesce a non rendere stucchevole – come spesso accade nel cinema di casa nostra – la recitazione di attori in erba, calandoli in una vicenda tipica del sottogenere della “Storia vista dagli occhi dei bambini”, senza però mai avere solo ansie pedagogiche.

Ma soprattutto perché ha il pregio di emozionare anche un pubblico adulto, pur presentandosi di fatto come un prodotto per infanzia e adolescenza non infette da dipendenze mediatiche di varia natura. Un film che non a caso strizza l’occhio a tanto cinema di culto che ha già trattato in passato l’analogo tema dell’infanzia rubata dai grandi drammi della Storia (da Il bambino col pigiama a righe, a Train de vie, da Jo Jo Rabbit a I ragazzi della Via Pal, passando anche per Stand by me e Il signore delle mosche).


di Guido Reverdito
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